Cultura Cibo
Il pane di segale: una specialità ashkenazita

Come gli ebrei hanno saputo fare propria una tradizione del Nord Europa trasformandola quanto bastava per renderla identitaria, ma soprattutto dando il via a un’eccezionale opera di diffusione

Quando si parla di pane ebraico, il pensiero va immediatamente a due preparazioni note universalmente, la challah e il bagel. Accanto a quello che per tradizione è il pane della festa e a quello che, al contrario, è tipico del consumo quotidiano, si colloca però anche un terzo tipo: il pane di segale. Al pari degli altri due è anch’esso una specialità ashkenazita, ma a differenza di quelli, nati specificamente in ambito ebraico o comunque, come il bagel, qui perfezionatisi, il cosiddetto pane nero non ha inizialmente connotazioni ebraiche. Come accaduto per tanti altri prodotti e ingredienti, però, anche in questo caso gli ebrei hanno saputo fare propria una tradizione trasformandola quel tanto che bastava per renderla identitaria, ma soprattutto operando una eccezionale opera di diffusione.

Prima di percorrerne la storia e le diverse sue ramificazioni, va messo in chiaro che del cereale infestante dal quale se ne ricava la farina, il Medio Oriente e l’Europa meridionale non ha infatti sentito parlare per millenni.  E, anche quando è accaduto, l’interesse è stato minimo. Tanto per citare un testimone illustre, Plinio il Vecchio intorno al 77 d.C. parlava di questo grano coltivato intorno alle Alpi, ma lo liquidava come un prodotto destinato alla povera gente. Per quanto già coltivata da almeno un millennio, la segale in effetti non era riuscita a conquistare i palati meridionali e ancora in epoca talmudica non se ne trovava traccia in Medio Oriente.

Al nord le cose andavano invece diversamente. Già nota allo stato selvatico, la segale si era imposta nelle regioni più fredde, Russia in primis, facendosi forte della propria resistenza alle basse temperature così come della capacità di crescere in condizioni difficili. Oltre alla tenacia, alla pianta andava riconosciuta anche una certa invadenza. Assimilabile a tutti gli effetti a un’erba infestante, la segale non si è mai limitata a crescere là dove era stata seminata. Ben decisa a mantenere lo spirito selvatico delle sue origini (secondo gli storici del cibo come Gill Marks collocabili in Armenia, in Turkmenistan o nell’Europa Centro-Meridionale) anche dopo l’addomesticamento, avvenuto si suppone intorno al 1000 a.C. nel Nord Europa, ha continuato a voler fare di testa propria. Si è dunque sempre lasciata trasportare dal vento anche nei campi coltivati a frumento, finendo così col crescere impunemente fianco a fianco al suo più blasonato parente. Il risultato è che per secoli i due tipi di grani sono stati mietuti e macinati insieme, dando origine a una farina scura, chiamata maslin in inglese e sitnice in yiddish, che sarebbe rimasta il principale sfarinato del Nord Europa fino al XIX secolo inoltrato. Ancora oggi, in un paese come la Romania, propaggine più meridionale del mondo ashkenazita dove pure il mais è preponderante, la farina di avena e un suo mix rappresenta comunque il 20 per cento della dieta nazionale.

Tornando a russi e polacchi, per secoli il pane più diffuso era stato quello prodotto con la farina della resistente avena, da sola o abbinata al frumenti. Quasi tutti i paesi della Polonia avevano un panificio ebraico, dove i panettieri consentivano anche alle donne di famiglia di portare a cuocere i propri pani a fronte di un piccolo compenso. Per quanto riguarda la produzione per la tavola di tutti i giorni, questa consisteva in grossi pani a base di farina di segale fatti lievitare grazie a una pastella fermentata chiamata roshtshine e ottenuta a sua volta dalla farina di segale mescolata con acqua e lasciata riposare. Già ai tempi, i pani di segale prodotti dai fornai ebrei si distinguevano da quelli dei loro vicini non ebrei per la superficie più chiara. Per ottenere questo effetto, prima di finire in forno per le canoniche e lunghissime 4-6 ore, le pagnotte ebraiche venivano spennellate con un composto chiamato kharmushke, preparato diluendo in acqua della farina di segale setacciata in modo da eliminare la crusca e renderla più chiara e fine.

Altra caratteristica diventata tipica del pane di segale ebraico sarebbe la presenza nell’impasto e sulla superficie di semi di cumino. La presenza di questi aromi, che conferisce all’impasto un caratteristico gusto e profumo speziato, è diventato tanto tipico da non essere neppure più segnalato, diventando distintivo del pane di segale ebraico. Chi ne desidera un altro tipo deve specificare che lo vuole senza semi.

Stiamo comunque parlando del pane di segale odierno, risultato di una serie di trasformazioni nonché punto di arrivo di un lungo viaggio. Metaforico e no. Se oggi questo prodotto da forno è associato alla cultura ebraica il merito va principalmente a quegli ebrei che a partire dalla metà dell’Ottocento passarono dalla Lituania, la Bielorussia e la Polonia per iniziare una nuova vita negli Stati Uniti. Come accaduto per tante ricette e persino ingredienti dell’Est e Centro Europa portate dagli ebrei, anche il pane di segale ha finito con l’essere identificato con chi lo aveva fatto conoscere. Quindi gli ebrei europei. Che, va detto, una volta giunti Oltreoceano trovarono una tale disponibilità di farina bianca da permettersi di ridurre al minimo la percentuale di farina di segale presente nei loro impasti. E se è vero che i più nostalgici ancora preparavano il pane scuro cui erano abituati a casa, derivazione dello scurissimo pumpernickel originario della Vestfalia, a base di sola farina di segale con tanto di crusca, entro la fine della seconda guerra mondiale della ricetta originale non sarebbe rimasta quasi più traccia. E se l’aspetto scuro sembrava quello delle origini non era per la lunghissima cottura né per l’uso esclusivo della farina di segale, ma per l’aggiunta nel più leggero impasto di caramello o di melassa.

Gli stessi pani di segale con i semi, tanto profumati di cumino da risultare inconfondibili anche ai nasi profani, hanno rischiato di andare scomparendo in epoca contemporanea. La scrittrice e critica gastronomica ebrea Ruth Reichl ricorda che il padre Ernst, classe 1900, era giunto negli Stati Uniti dalla Germania nel 1926 e anche dopo la fine della guerra non si era mai rassegnato alla scomparsa dei pani della sua giovinezza. Disprezzava sommamente il cibo americano, ma in particolare “quelle soffici fette bianche che ti evaporano in bocca”, spingendo la moglie a rifornirsi regolarmente nelle panetterie ebraiche di pagnotte di “corn rye” con i semi. In realtà di “corn”, mais, non vi era traccia in quegli impasti. Come spiega Reichl su Tablet, quel termine si riferiva invece a korn, il termine yiddish per grano, che nel pane della tradizione tedesca antica consiste sempre in quello di segale.

Da metà Ottocento questo pane era stato alla base dell’alimentazione degli immigrati ebrei in America, protagonista con pastrami, panna acida, aringhe, schmaltz e cetriolini dell’offerta tipica delle loro gastronomie. Prodotto in pagnotte più piccole e pretagliato in modo da poter essere prontamente farcito, un secolo dopo il pane di segale ebraico avrebbe conquistato anche la grossa produzione, entrando così nel mainstream americano.

Per tutta la prima metà del Novecento, però, nonostante la produzione industriale, questo pane scuro dal sapore lievemente acido aveva continuato a essere acquistato principalmente dagli ashkenaziti. Tutto sarebbe cambiato nel 1961 con il lancio di uno slogan memorabile della panetteria ebraica dui New York Henri S. Levy’s and Son: “Non devi essere ebreo per amare Levy’s”. Pochi anni dopo, nel 1967, sarebbe seguita una campagna a suon di manifesti in metropolitana che accompagnavano la scritta con fotografie di persone delle più diverse etnie impegnate ad assaporare del pane di segale Levy’s. Questa geniale campagna avrebbe non solo fatto la fortuna del panettiere newyorkese, ma anche della equazione ebrei e pane di segale, legame implicitamente affermato dal suo azzeccatissimo slogan.

Per quanto riguarda invece i prodotti più di nicchia, rappresentati da pani dalla caratteristica colorazione scura e la consistenza granulosa, negli scorsi decenni erano andati via via scomparendo insieme alle vecchie generazioni di ebrei tedeschi e con l’assimilazione di quelle nuove. Sarebbero fortunatamente ricomparsi in tempi relativamente recenti grazie all’interesse negli Stati Uniti per le antiche tecniche europee di panificazione. In particolare, come riconosce la stessa Ruth Reichl, ad avere riscoperto il pane di segale sarebbero stati gruppi di panificatori come quello californiano del Movimento per il pane artigianale. Recuperando ricette e ingredienti originari assieme le lunghe cotture a vapore tipiche della Germania e del Nord Europa, questi intrepidi archeologi del gusto hanno così restituito ai palati contemporanei non solo antichi sapori ma anche un importante capitolo di storia.

Pane di segale

Ingredienti per 2 pagnotte

500 g di farina di segale

500 g di farina bianca per pane

1 cucchiaio e ½ di lievito secco

1 cucchiaio di miele

1 cucchiaio di sale

1 cucchiaio di zucchero

3-4 cucchiai di semi di cumino

2 cucchiai di olio di oliva o di semi

350 ml di birra lager

1 uovo piccolo

La sera prima, sciogliere il miele e il lievito in una ciotola contenente 125 ml di acqua tiepida, poi lasciare riposare per circa 15 minuti, fino a quando si forma una schiuma in superficie. Setacciare quindi i 2 tipi di farina in una larga ciotola e mescolarli con 2-3 cucchiai di semi di cumino, lo zucchero, il sale, l’olio e il composto di lievito e miele.

Fare intiepidire leggermente la birra e unirla a poco a poco al composto nella ciotola, mescolando con le mani per farla via via assorbire. Trasferire poi l’impasto sul piano di lavoro infarinato e lavorarlo per 10-15 minuti, unendo solo se necessario altra farina. Versare un filo di olio in una larga ciotola, trasferirvi l’impasto e rigirarvelo fino a quando sarà perfettamente unto in superficie. Coprire con pellicola trasparente e lasciare lievitare in un luogo tiepido per tutta la notte.

Riprendere l’impasto il giorno seguente e lavorarlo ancora per 5 minuti prima di dividerlo a metà e modellarvi 2 pagnotte oblunghe o rotonde; adagiarle su una placca foderata con carta da forno unta e inciderne la superficie a tagli diagonali. Coprirle quindi con un canovaccio umido o con pellicola da cucina unta e lasciarle lievitare per 1 ora e 30 minuti o comunque fino a quando avranno raddoppiato il volume.

Eliminare il canovaccio o la pellicola e spennellare le pagnotte con l’uovo sbattuto, poi spolverizzarle con i semi di cumino rimasti. Inserirle quindi nel forno già caldo a 190° e cuocerle per 50-55 minuti. Sfornarle e lasciarle raffreddare.

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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