Il Pereq ha-shalom è un testo poco noto, poi confluito nel Talmud Babilonese, che racconta la parola pace. Un viaggio tra i significati di una parola tanto semplice quanto complessa
Viviamo settimane di angoscia per la guerra in corso, che Israele ha subìto e che deve combattere secondo “le regole della guerra” per la propria sopravvivenza. E finché non si troverà una soluzione politica al conflitto, vale il principio dell’autodifesa armata a fronte di un nemico che vuole cancellare Israele dalla geografia mediorientale. Che si debba fare la guerra per garantarsi una pace futura è un paradosso frequente nella storia umana. Gli ultimi 80 anni di pace in Europa sono ‘fondati’ sul conflitto più grande e doloroso di sempre, combattuto per sconfiggere un nemico ben preciso: il nazifascismo. Interrogato in tv, un soldato dell’esercito di difesa di Israele (Tzahal) ha detto: “Non combatto perché odio i palestinesi ma perché amo il mio paese”.
Anche in questo drammatico frangente, anzi proprio in questo tragico momento bellico, va detto e ripetuto che, per la tradizione ebraica, la pace e la riconciliazione e la soluzione dei conflitti, concetti che sono condensati nella parola shalom, sono tra i valori più alti in assoluto. Ciò insegna il salmo 34, versetto 15: Baqesh shalom ve-radfehu ossia “cerca la pace e perseguila”, o meglio “inseguila”, ammonimento che è preceduto dall’esortazione: sur me-ra’ va-’asè tov cioè “allontanati dal male e fa’ il bene”. Dopo le tragiche esperienze di resistenza armata contro i romani, il mondo ebraico antico in eretz Israel iniziò una vera e propria celebrazione dell’eccellenza della pace, di cui abbiamo abbondante documentazione nella letteratura rabbinica, midrashica e talmudica, dei primi secoli dell’era comune.
Focalizziamoci su un testo poco noto, chiamato Pereq ha-shalom o Capitolo della pace, che nacque come breve antologia sul tema (17 aforismi rabbinici, 19 secondo certi manoscritti, con relative citazioni bibliche di supporto) e che fu poi incluso in un trattato minore del Talmud Babilonese, il Derekh eretz zutà. La più parte di questi insegnamenti si apre con la formula gadol hu ha-shalom she… ossia: “grande è la pace perché”. Sin all’inzio, con il detto di rabbi Yehoshua’ per il quale «grande è la pace perché essa è per la terra come il lievito per la pasta; se il Signore benedetto non avesse creato e donato la pace alla terra, la spada e la belva avrebbero privato la terra dell’uomo».
Potente incipit, nel segno del realismo storico e naturale: la spada è sineddoche della guerra e la belva delle forze della natura (inclusi terremoti, vulcani e tzunami) che, quando si scatenano, non risparmiano nulla e nessuno, buono o malvagio che sia. Lo shalom dunque non è solo uno status di non-guerra tra gli esseri umani ma anche un equilibrio fecondo tra terra e i viventi, tra ambiente e umanità, e come tale, nella visione religiosa ebraica, è dato e garantito dallo stesso Creatore di tutto. La spiegazione a questo detto rimarca subito che la ‘terra’ è sì il mondo intero, ma soprattutto è Israele (lasciando intendere che è impensabile Israele senza la sua terra). Senza la pace, la terra sarebbe di nuovo tohu va-vohu, deserta e desolata, priva di vita. Che l’orizzonte sia qui mondiale, globale, lo conferma il secondo detto attribuito a rabban Shim’on ben Gamliel, per il quale «il mondo si regge su tre cose: la giustizia, la verità e la pace»; il detto si trova anche nei Pirqè Avot I,18 e ha ricevuto infiniti commenti da parte dei maestri di Israele, che hanno tentato di coordinare tra loro questi tre valori, cosa tutt’altro che facile poiché, se è vero che non si dà pace senza giustizia, a volte occorre ridimensionare la verità o addirittura rinunciarvi in parte per amore della pace, ossia per un compromesso che la renda possibile.
Da siffatto grandangolo l’obiettivo, da universale, si restringe poi su Israele e sulla Torà, della quale si dice che «mentre ogni altro precetto va compiuto a suo tempo e nel suo luogo, dello shalom si dice che va cercato e perseguito in ogni tempo e in ogni luogo» e il riferimento è ancora al salmo 34 visto sopra. Un insegnamento dopo l’altro, come in un climax discendente, eccoci alla pace in rapporto al nucleo più ristretto, quello della cerchia familiare e tra marito e moglie, dove si sa che i conflitti sono fin troppo naturali. Qui il testo ricorda (con implicito rimando a Bemidbar/Nm 5 e al trattato talmudico Sotà) come «grande è la pace, al punto che il Signore benedetto permette che il proprio Nome, vergato in santità, si dissolva nell’acqua per mettere pace tra marito e moglie». Il rito cui si allude è difficile da spiegare, forse anche discutibile alla luce dei parametri della modernità, ma vale qui il principio: le sacre lettere del nome divino, sempre incancellabili e da trattarsi con il più sacro rispetto, possono essere sciolte e dissolte affinché un marito si riconcili con la propria moglie (e viceversa). A questo punto è proprio Dio sotto i riflettori, là dove si afferma che «grande è la pace perché uno dei nomi divini è Shalom», e subito si aggiunge che anche il messia è chiamato Shalom. Qui il sostegno scritturistico è Isaia 9,5, un versetto nel quale si parla del figlio di Achaz, Ezechia, pronosticando o forse augurandogli che sia un sar shalom, cioè “un principe di pace” o un ministro di pacificazione.
Il sedicesimo aforisma (a sua volta una ripresa dei Pirqè Avot I,12) pone al centro la figura di Aronne in quanto kohen gadol, sommo sacerdote: «Grande è la pace perché Aronne il sacerdote non veniva lodato se non per la pace. Egli perseguiva la pace, augurava la pace e rispondeva all’augurio di pace. Ecco perché: quando vedeva due persone che si detestavano a vicenda, andava dal primo e gli diceva: ‘Perché detesti il tuo compagno? Lui è venuto da me, a casa mia, si è prostrato davanti a me e mi ha detto di averti fatto torto. Va’ e rappacificati con lui’. Poi andava dal secondo e gli diceva le stesse parole, rimettendo così la pace tra i due litiganti». Che Aronne sia uomo di pace deriva dal suo ruolo sacerdotale; infatti l’altare, a cui il secerdozio serve, è in funzione della pace e della riconciliazione tra Iddio benedetto e l’umanità, ma anche tra uomo e uomo. Nella Melkhiltà de-rabbi Ishmael si legge: «Le pietre dell’altare gettano shalom tra Israele e Dio». Per i rabbini c’è incompatibilità tra il Tempio, di cui l’altare è il cuore, e il ferro, che pars pro toto significa le armi e gli strumenti di morte.
Il Pereq ha-shalom si conclude ricordando che tutte le grandi preghiere ebraiche, sia la birkat kohanim di origine biblica sia le berakhot di istituzione rabbinica, e quindi prescritte dall’halakhà, terminano con l’invocazione della pace: dalla lettura dello Shema’ all’ultima berakhà dell’Amidà, che è chiamata appunto birkat shalom. La pace è evocata e chiesta, ovviamente, anche alla fine del qaddish che ritma, separa e unisce le varie parti della liturgia sinagogale: ’Osè shalom bi-mromav, Hu ya’asè shalom ’alenu ve-’al kol Israel ve-immerù amèn. “Colui che crea la pace e l’armonia nel Suoi cieli più alti, ponga la pace su di noi e su tutto Israele. E si dica: amèn”. Ma vorrei chiudere questa riflessione con il detto attribuito a Ben Zomà: «Chi è forte? Chi è eroe [ghibbur]? Colui che domina i propri istanti» (Pirqè Avot IV,1), che riceve una strepitosa e arditissima variante nel commento degli Avot de-rabbi Nathan, dove si legge: «Chi è forte, chè è eroico? Colui che sa trasformare il proprio nemico in un amico». Yihè ratzon milfanekha…
Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma