Cultura
La cretività ebraica e lo stile di Carnaby Street. Una mostra a Londra

Come gli ebrei londinesi hanno dato forma a uno stile planetario. È questo il titolo di una storia che comincia tra gli immigrati ebrei nell’East End per arrivare nel guardaroba delle star mondiali

Si è da poco inaugurata a Londra al Museum of London Docklands la mostra Fashion City: How Jewish Londoners shaped global style che resterà aperta fino al 14 aprile 2024. È una celebrazione di quegli ebrei residenti a Londra che contribuirono a rendere la capitale un centro di richiamo per la moda internazionale e dettero vita a importanti brand ancora oggi conosciuti. L’esibizione inizia con una semplice valigia, simbolo di quell’immigrazione ebraica cospicua che alla fine dell’Ottocento sconvolse la piccola comunità londinese, che si ritrovò trasformata dall’arrivo di 150.000 rifugiati dalla Russia e l’Europa dell’est. Scappavano dalle persecuzioni e dalla povertà. La maggior parte si rifugiò nell’East End di Londra andando a incrementare il quartiere concentrato nell’area tra Spitalfield e White chapel. Era un distretto associato agli immigrati anche per la vicinanza alla stazione ferroviaria e il porto di Harwich. Questo flusso così ingente di fuggitivi creò qualche preoccupazione nelle autorità: l’East End cominciò a somigliare sempre di più a un ghetto popolato da forestieri esotici che parlavano yiddish.
Small travelling case used by a child arriving in London as part of the Kindertransport
All’inizio le loro usanze, i loro cibi divennero motivi di sospetto, essendo estranei allo stile inglese, tanto che i nuovi arrivati furono accusati perfino dei delitti di Jack lo squartatore. In ogni caso la coabitazione tra ebrei e non ebrei nel distretto non sfociò mai in aperto antisemitismo e in poco tempo il quartiere si trasformò in un luogo vibrante di energia cosmopolita. Si registrano infatti collaborazioni tra artigiani ebrei, giamaicani e bengalesi. Molti di questi immigrati trovarono lavoro nell’industria dell’abbigliamento e finirono per diventare stilisti noti e apprezzati.
Sophie Rabin arrivò dalla Polonia nel 1914 e dopo aver praticato diversi lavori si specializzò nella confezione di bluse e divenne sarta nel West End, il luogo più prestigioso della città. Mr Michael Fish vestì le celebrità dello swing inglese e molti attori noti da Sean Connery e Michael Caine a star musicali come Mick Jagger e Jimi Hendrix. Era specializzato nella creazione di lunghi camicioni maschili, dal taglio androgino, come quello indossato da David Bowie nel 1970 per il suo album The man who sold the world.
Famoso per i suoi cappelli di lusso estremamente ricercati fu Otto Lucas, ebreo tedesco scappato dalla Germania negli anni trenta, per motivi religiosi e perché era omosessuale. Confezionò sofisticati copricapo per Greta Garbo e Wallis Simpson; a volte vi attaccava fiori di seta che divennero la sua firma. Le sue opere apparvero almeno in dieci occasioni sulle copertine di Vogue. E come non citare Cecil Gee, nome originario Sasha Goldstein, nato in Lituania nel 1903 che creò il look  per i Beatles quando erano soltanto un gruppo ancora agli albori. Il loro manager Brian Epstein, anche lui ebreo, voleva un’immagine forte. Niente di troppo complicato, solo una camicia attillata e abbottonata fino al collo, una specie di collare. Divenne la divisa beat che tutti conosciamo.
E ancora Nettie Spiegel, la cui famiglia aveva sperimentato gli orrori della Kristalnacht, che scappò dai nazisti sul Kindertransport e diventò una famosa creatrice di vestiti da sposa che portavano l’etichetta “Neymar”. Non rivide mai più i genitori. Nel 2013 Rav Jonathan Sachs ha inaugurato una stanza nuziale nella sinagoga che porta il suo nome. E David Sassoon che realizzò il famoso cappotto rosso indossato da Lady Diana quando annunciò la sua prima gravidanza.

Quegli immigrati che avevano iniziato a lavorare in spazi angusti con le loro macchine da cucire divennero importanti fashion designers e finirono per dominare Carnaby Street, la strada che divenne iconica negli anni Sessanta, gli Swinging Sixties. La mostra racchiude non solo ricostruzioni e manichini ma anche video, racconti orali che si possono ascoltare in cuffia, mini biografie e foto. È commovente perché testimonia lo spirito di iniziativa, la capacità di rialzarsi ed essere creativi di persone che scappavano dall’inferno dei pogrom e delle persecuzioni razziali. Alcuni fallirono, altri riuscirono. Ma vale la pena ammirarne il coraggio e ricordarli tutti con una visita.

Laura Forti
collaboratrice
Laura Forti, scrittrice e drammaturga, è una delle autrici italiane più rappresentate all’estero. Insegna scrittura teatrale e auto­biografica e collabora come giornalista con radio e riviste nazionali e internazionali. In ambito editoriale, ha tradotto per Einaudi I cannibali e Mein Kampf di George Tabori. Con La Giuntina ha pubblicato L’acrobata e Forse mio padre, romanzo vincitore del Premio Mondello Opera Italiana, Super Mondello e Mondello Giovani 2021. Con Guanda nel 2022 pubblica Una casa in fiamme.

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