Dopo la tragedia del 7 ottobre un nuovo vocabolario per raccontare la sofferenza e il desiderio di rinascita. Un progetto di Liat Levy Azran, ricercatrice di cultura visiva e storica della moda, e del designer Doron Baduach Keren
Sono trascorsi ormai due mesi dal massacro del 7 ottobre. Oltre alla tragedia di un conflitto ancora in corso e alla drammatica situazione dei 122 ostaggi ancora Gaza, si aggiunge il problema di come raccontare tutto questo, e documentare una pagina della storia, non solo del popolo ebraico, unica nel suo genere.
Anche per la spettacolarizzazione, a tratti pornografica, del conflitto e delle sue vittime, la cui violenza subita è stata mostrata e documentata in diretta. “Non si può neppure utilizzare la metafora della Shoah, perché quello che è successo il 7 ottobre è stato persino peggio, perché il mondo ha visto tutto in diretta, per di più senza scandalizzarsi” ci racconta Liat Levy Azran, ricercatrice di cultura visiva e storica della moda.
Le contraddizioni di questo conflitto, dalle femministe ai queer che si sono dimenticati dei diritti umani delle loro sorelle e dei loro fratelli israeliani, all’ONU che si è dimenticato delle 28 nazionalità coinvolte oltre Israele, sono talmente inspiegabili, e il dolore è tale per cui “non ci sono più parole” ci spiega Liat.
Era il 18 novembre quando, per la prima volta, si è rivolta all’Accademia della Lingua Ebraica, cercando di spiegare loto la sua personale sofferenza e impossibilita di comunicare: “Buongiorno, vi scrivo per chiedervi se fosse possibile aggiungere alla lingua ebraica parole che possano descrivere quello che stiamo provando come società. È da settimane che cerco parole per descrivere quello che sta succedendo, ma non riesco a trovarle. Non riesco a trovare parole precise, che possano descrivere la mia anima, dopo quello che è successo il 7 ottobre.”
In attesa di ricevere risposta, Liat ha scoperto di non essere l’unica a cercare parole con cui esprimersi, in questi giorni bui. Mentre continuava la sua ricerca, ha trovato un partner: il designer e creative director Doron Baduach Keren – titolare dell’agenzia The Unified Field – che sulla sua pagina Instagram già dal 7 ottobre cercava di offrire strumenti e infografiche per cercare di spiegare la situazione nelle prime settimane del conflitto. La loro collaborazione, iniziata proprio tramite social, era cominciata nel corso di una mostra pop-up a cui avevano lavorato insieme: “Block 34”, curata da Liat.
Appena gli ha proposto di scrivere assieme un “Nuovo dizionario ebraico” questo progetto solamente teorico ha cominciato a prendere forma, proprio grazie al design di Doron. Le prime parole che hanno iniziato a comporre sono state: Labai, “una persona che contribuisce alla guarigione di un crepacuore collettivo”; Tsipirah, “l’aspettativa di un certo comportamento a causa di un evento critico”; Telror “nel senso di terrore e orrore – assieme – derivati dalla consapevolezza di come tutto questo sia inconcepibile”; Vaibum, ovvero “perdita di fiducia nel sistema”.
Queste solo alcune delle parole del nuovo vocabolario di ebraico che i due partner hanno creato insieme su Instagram all’indirizzo new.hebrew.dictionary. Ogni parola è accompagnata da una breve spiegazione e anche la grafica con cui sono spiegate ricorda proprio la grafica tipica dei dizionari. Attualmente le parole nel dizionario sono 20, ma tendono ad aumentare di giorno in giorno.
A volte si tratta di due parole diverse che diventano una sola, come ad esempio rashgal, composta dalle parole “regesh” (sentimento) e “gal” (onda) per descrivere quell’“esperienza di un’ampia gamma di emozioni profonde che si accumulano in un breve lasso tempo”. A volte, invece si tratta di cambiare una lettera per cambiare l’intero significato della parola. Ad esempio, Irdemut, mette assieme “l’insonnia, generica, assiema all’incapacità di addormentarsi a causa della situazione di incertezza”.
Poi ci sono parole che nascono dalla connessione tra mondi diversi, tra cui l’arte, l’astronomia, il mondo della medicina e altro ancora. Per esempio, Ialdei ha Kalaniot, ovvero “i figli degli anemoni” per descrivere i ragazzi rapiti e assassinati durante il Festival Nova, con riferimento agli anemoni – tipici fiori che crescono nel sud di Israele, la regione dei kibbutz colpiti da Hamas – il cui colore ricorda quello del sangue versato nel corso del massacro, ma anche un l’allusione ai Figli dei fiori, che rappresentavano la pace e l’amore, temi trasversali tra coloro che hanno organizzato e che hanno partecipato al Festival.
Liat e Doron volevano che il loro fosse anche un progetto comunitario, cosa che è avvenuta in automatico. Nel giro di pochissimo alcuni dei loro followers hanno cominciato a suggerire nuove parole. Così come c’è chi si rivolge a loro per chiedere aiuto e trovare un nuovo neologismo che possa esprimere i loro sentimenti. Qualcuno, recentemente, gli ha scritto: “Quale parola può esprimere il sentimento di chi è stato nascosto per 12 ore in un bunker e alla fine ha dovuto lasciare la propria casa in fiamme?”
Alcune delle loro parole hanno già preso piede nel linguaggio quotidiano: “questi neologismi hanno il dono di distillare sentimenti ed esperienze. E quando le persone le vedono scritte nero su bianco, hanno la sensazione di attraversare gli stessi processi psicologici ed emotivi che stanno vivendo anche altri”, spiega Doron, facendo riferimento, per esempio, alla parola hedlek, che significa “un lampo momentaneo di riconoscimento di una realtà insopportabile che viene immediatamente sostituito dalla negazione dell’avvenimento”. “È una sorta di sintomo post-traumatico che tutti sperimentiamo, quando non capiamo ancora di cosa si tratta. Utilizzando il nostro nuovo vocabolario, giorno dopo giorno, troviamo una spiegazione ai nostri sentimenti. E la sensazione è davvero terapeutica.” Anche per spiegare quello che succede fuori da Israele, continua Liat, talvolta servendosi di termini che provengono da altre lingue, come per esempio “wokalipti” che rappresenta l’apocalisse della generazione woke, “talmente abbandonata a sé stessa da aver abbandonato l’umanità, tutta” ci spiega Liat che continua, citando i R.E.M. “dopo il 7 ottobre ho pensato che fosse The end of the world as we know it…”
Eppure, nel loro nuovo vocabolario, non mancano anche parole di speranza perché, come ci spiega Liat “nonostante tutto, siamo ancora qua. È la nostra resilienza che ci mantiene in vita”, mi dice mentre mi mostra le nuove parole aggiunte e mi racconta di quelle di cui non sono ancora riusciti a trovare una definizione adatta. Per esempio, quello che sta succedendo, per la prima volta nella storia di Israele, che va oltre l’identità ebraica e forse, proprio per questo, fa così paura ad Hamas. Ovvero che, nonostante tutto quello che è accaduto, e sta ancora accadendo, tutti i giorni, 9 milioni di cittadini – ebrei, musulmani e cristiani – si svegliano, portano i loro figli a scuola, e poi si rimboccano le maniche, per ricostruire tutto: dai campi dei kibbutz che sono stati messi a ferro e fuoco, a un intero Paese. “È una forma di resilienza davvero unica al mondo: ci toccherà trovare una nuova parola per raccontare, anche, tutto questo”.
Curatrice presso il Museo Eretz Israel, nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un Dottorato in Antropologia a cui segue un Postdottorato e nel 2016 la nascita di Enrico: 50% italiano, 50% israeliano, come il suo compagno Udi. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è Tel Aviv – Mondo in tasca, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca, Laurana editore.