Un montaggio fatto esclusivamente con le testimonianze prese in tempo reale – nel corso di quelle 19 terrificanti ore – per dire al mondo cos’è stato. Intervista al regista Dan Peer
Il 6 dicembre, in ricorrenza dei due mesi dalla data di inizio del Nova Music Festival – preso d’assalto da Hamas all’alba del 7 ottobre, durante il massacro dei kibbutz del Negev – il canale israeliano Yes ha presentato in anteprima mondiale il documentario #NOVA.
Questo incalzante film racconta, minuto per minuto, i tragici eventi del Sabato Nero, a partire dalla sera del 6 ottobre, quando alcuni dei 10.000 giovani al rave cominciano a scambiarsi video e messaggi condividendo la gioia di raggiungere il Festival, fino all’arrivo dei terroristi che, dopo aver ucciso oltre 367 partecipanti, ne hanno rapiti 40, di cui 34 sono ancora ostaggi a Gaza.
Nei giorni subito dopo il massacro, il regista Dan Peer si era offerto volontario per aiutare i famigliari a trovare i parenti dispersi. Nel giro di poche ore aveva iniziato a ricevere un’enorme quantità di messaggi, inclusi audio e video, dai sopravvissuti al Festival e dai famigliari degli scomparsi. Cercando di archiviarli in ordine cronologico per poter essere il più efficiente possibile, ha cominciato a mettere assieme i pezzi di un puzzle, a partire dalle 19.00 della sera precedente al massacro, mentre i ragazzi si preparavano ad andare alla festa, fino alle 14.00 del giorno dopo, quando il primo soldato riesce ad entrare nel luogo del rave, trovando un teatro di morte.
Il documentario è estato realizzato montando esclusivamente testimonianze in tempo reale – nel corso di quelle 19 ore – senza l’utilizzo di alcuna testimonianza successiva agli eventi mostrati: «Non volevo offrire alcuna interpretazioni dei fatti» ci racconta il regista «ma fare in modo che i fatti parlassero da soli».
L’idea del film è nata dopo due settimane di lavoro come volontario quando una mattina Peer si è svegliato di soprassalto in un incubo: «Ho sognato di essere stato anche io al Nova, partecipando al Festival dall’inizio alla fine, fino all’arrivo dei terroristi. Forse proprio perché, nel corso di quelle due settimane di lavoro, ero riuscito a ricostruire tutto quello che era veramente successo, quel giorno ho capito che quella storia doveva essere raccontata a tutto il mondo, perché chiunque la vedrà non avrà più alcun dubbio dei crimini commessi da Hamas».
Fin da subito Peer ha capito che non poteva fare tutto da solo, e ha coinvolto un gruppo di cinque amici volontari come lui, che hanno trasformato il salotto di casa in una produzione cinematografica.
Dopo cinque giorni, hanno realizzato che da soli non ce l’avrebbero mai fatta o che ci sarebbe voluto troppo tempo: c’era bisogno di raccogliere le liberatorie non solo dei sopravvistati, ma anche delle famiglie che, giorno dopo giorno, venivano a scoprire chi era stato rapito e chi era stato ucciso. Un lavoro estenuante che richiedeva tantissimo tempo, mentre non c’era un minuto da perdere: «Il mondo doveva sapere. Allora ci siamo rivolti al canale Yes e non appena gli esperti hanno visto il materiale che avevamo, non hanno esitato un istante a darci supporto».
Come dichiarato da Sharon Levi, amministratore delegato di Yes Studios: «Abbiamo visto tutti alcuni clip di questa giornata tragica, nei notiziari di tutto il mondo. Ma vederli montati uno dopo l’altro in un’unica sequenza temporale lineare ha reso possibile una narrazione davvero potente e inequivocabile, che permette di vivere da vicino le atrocità che hanno vissuto le vittime in quelle ore».
«Anche per questo – commenta il regista – non potevo permettermi di fare errori nel ricostruire la timeline. Ogni minuto della linea temporale è stato verificato e ogni fonte utilizzata è stata scelta perché rientrava, rigorosamente, nello scorrere del tempo che cercavo di ricomporre: i primi razzi che arrivano da Gaza alle 6.22, l’irrompere dei terroristi nel festival alle 6.59, fino all’arrivo del primo soldato, alle 14.00. Nello scegliere, tra ore e ore di materiale, quali minuti utilizzare, ho volutamente scartato ogni tipo di immagine violenta, perché non volevo che venisse fatto un uso pornografico dei corpi delle vittime».
Gli unici corpi che si intravedono – oscurati – sono, infatti, quelli che, alla fine del documentario, trova il primo soldato che riesce ad entrare in quel che è rimasto del Festival, mentre, facendosi strada tra i cadaveri, continua a chiedere, fino a che la voce gli si spezza: «C’è qualcuno? C’è qualcuno rimasto vivo? C’è qualunque segno di vita?»
Come spiega il regista, quell’ultima domanda con cui si chiude il documentario è una domanda retorica, anche nei confronti di quella società civile che ha voluto chiudere gli occhi di fronte al massacro, nonostante le prove, per mesi, siano circolate tra i social di tutto il globo.
Alla fine, prima dei titoli di coda e l’omaggio a tutte le vittime, il regista sceglie di concludere con un “flashback” in cui – almeno nel film – tutti coloro a cui è stata strappata la vita, tornano a ballare per un’ultima volta: «Nonostante tutto quello che ci hanno fatto, volevo che il mondo sapesse che si trattava di giovani che amavano la vita e credevano nella pace. Ho voluto che chi guardasse questo film, se li ricordasse ancora sorridenti, perché solo la luce potrà trionfare sulle tenebre di questi tempi bui».
fate federe che le persone dimenticano presto