Un funerale, la guerra, la solidarietà e il desiderio che tutto questo finisca. Ora
Altri dieci morti tra i soldati e gli ufficiali che stanno combattendo a Gaza, e tra i morti c’è anche Izhak, il figlio dei miei amici Rafi e Edna. Non è giusto, mi è venuto da dire. Hanno già perso una figlia che si è ammalata ed è morta in pochi giorni. E adesso anche il figlio.
Si chiamava Izhak Ben Bassat, Benba per gli amici, era un colonnello, molto amato ed apprezzato. Partiamo per il nord, un’ora e mezza di viaggio, per arrivare al funerale. Stretti nella folla, i piedi immersi nel fango del cimitero dopo la pioggia torrenziale di ieri, tra generali e colonnelli in divise un po’ sgualcite che portavano in spalla la bara, abbiamo ascoltato il figlio maggiore di Izhak leggere il Kaddish, la preghiera che legge il figlio quando muore un padre, ma anche un padre per un figlio. Edna, la madre, ha poi detto che era convinta che quel suo figliolo fosse intoccabile, che dopo tanti combattimenti a cui aveva preso parte, anche questa volta se la sarebbe cavata, ormai mancavano pochi giorni al congedo e al ritorno alla vita civile. La moglie, abbracciando i bambini, ha promesso che avrebbero vissuto una vita felice anche senza il padre. Tanti bambini dovranno imparare a vivere senza un padre e sperare comunque in una vita felice.
Impressionante il numero degli ufficiali uccisi in questa guerra. È il concetto stesso di come combattere che lo prevede e il richiamo Aharai (dopo di me). E poiché i soldati semplici devono seguire i graduati, muoiono per primi gli ufficiali, muoiono per primi quelli più bravi e più coraggiosi, muoiono, e non è uno slogan, i migliori.
Non ne posso davvero più.
Che questa guerra finisca e finisca presto.
Ho nostalgia dell’atmosfera che regnava tra i giovani fino a due mesi fa, della loro voglia di divertirsi e di ritrovarsi la sera, per bere, ridere, pensare come girare il mondo. E invece adesso se ne vedono molto meno in giro, e comunque quasi tutti col mitra in spalla. Sono circa 177mila i soldati attivi nell’esercito israeliano: gli uomini hanno un fermo obbligatorio di circa tre anni, le donne di circa due. La leva – sherut sadir in ebraico – inizia a 18 anni.
Sono invece più di 400mila i riservisti – i miluim – che vengono richiamati in caso di necessità. Il sette ottobre ne sono stati arruolati circa trecentomila. L’esercito israeliano non è un esercito professionista, al contrario, è un esercito popolare formato da tutti, diciamo quasi tutti, perché gli haredim, gli ultra religiosi, non ne fanno parte, tranne che per rari casi. Ma ne fanno parte i figli dei ministri. Solo due giorni fa è caduto in combattimento il figlio di Gadi Eisenkot, in passato capo di stato maggiore, oggi insieme a Benny Ganz parte del gabinetto di guerra. Sono entrati nel governo per bilanciare la destra e l’estrema destra all’interno di questo disastroso esecutivo e gli dobbiamo molto. Gli devono certamente la vita gli ostaggi liberati, in quanto è stato proprio lui, insieme a Ganz, a premere per la breve pausa che ne ha permesso la liberazione. Come se non bastasse, il giorno del funerale del figlio è caduto un altro Eisenkot, figlio di una sorella del ministro. Può esserci tragedia peggiore di un padre che dirige una guerra e della morte di un figlio e di un nipote in quella stessa guerra? Eppure in qualche modo è normale in questo nostro paese. Lo è sempre stato. Anche il figlio di Ganz è sotto le armi, e pure quello di Gallant. Ma non i figli di Netanyahu, gli unici figli – della storia di Israele – che girino per il mondo con la scorta. Ultimamente a Yair Netanyahu il padre ha persino organizzato un passaporto diplomatico. Che vergogna.
Tornando dal funerale, un po’ intontiti, molto stanchi, ci siamo fermati al palazzo dell’Expo, nel cui posteggio sotterraneo funziona uno straordinario sistema di volontariato. Corridoi interi come in un supermarket, con le indicazioni per tutto ciò di cui possano aver bisogno gli sfollati al sud o al nord, i soldati al sud o al nord. Dalle lavatrici e ai frigoriferi, dalle maglie calde ai calzettoni, dai giocattoli ai vestiti (nuovi, di tutte le misure), ai dolci, ai libri, ai divani, piatti e bicchieri, alle mutande, shampoo, pannolini. Per ogni richiesta c’è la risposta. Tutto gratis, tutto nuovo. Tutto organizzato alla perfezione. Poi ci sono i trasportatori che si mettono in macchina e portano in giro per il paese tutto ciò che è stato richiesto. A volte ai soldati, a volte ai civili. Perché finché i missili e i razzi non termineranno, gli sfollati del nord e del sud continueranno a vivere lontano dalle loro case e dalle loro vite normali. E alcuni la casa non l’hanno proprio più da quel sabato di due mesi fa.
Quanta solidarietà e buon cuore e che bravi i nostri soldati che stanno combattendo come leoni. Eppure non ne posso più. Che questa guerra finisca. Subito. Che questo governo cada e subito. Che Netanyahu dia le dimissioni (non lo farà!). Che ritornino gli ostaggi ancora vivi, visto che ogni giorno sale il numero degli ostaggi morti. Adesso che abbiamo dimostrato che siamo in grado di combattere, e abbiamo, direi, anche ricuperata la deterrenza, mi sembra sia venuto il momento di fermarsi.
A fare le guerre alla fine ci si perde sempre. Oggi arriva l’annuncio di altri otto feriti molto gravi.
Nasce a Padova nel gennaio del 1949, ma vive in Israele dal 1968.
Inizia i suoi studi universitari in Israele e si laurea all’Università Bar-Ilan in letteratura comparata già madre dei primi due figli, Eyal (nato nel 69) e Michal (nel ’72). Jonathan, il terzo figlio, nasce nel 77, ma il 26 febbraio 1998 cade in combattimento durante uno scontro con gli Hezbollah in Libano. Era in servizio militare di leva. Da allora Manuela Dviri si dedica ad attività per la pace, inizialmente chiedendo il ritiro dell’esercito israeliano dal territorio libanese. Quella campagna verrà poi ricordata con il nome delle “Quattro Madri” e viene coronata dal successo.
Giornalista, scrive per tre testate israeliane, “Maariv”, “Yediot Aharonot” e “Haaretz” e per diverse italiane come Corriere Della sera, Vanity Fair, la Gazzetta dello Sport, Oggi , Il Fatto Quotidiano. Come scrittrice ha pubblicato tra gli altri un libro di racconti in ebraico dal titolo “Beizà shel shokolad” (L’uovo di cioccolata) e un testo per il teatro, “Terra di latte e miele”, in scena nel 2003 con Ottavia Piccolo e Enzo Curcuru, per la regia di Silvano Piccardi. È Stata insignita di vari premi per la pace e giornalistici tra cui il Premio “Peace and Reconciliation Award” del Centro Peres per la Pace, e il Premio Viareggio Repaci Internazionale.
La sua attività per la pace comprende moltissime iniziative di collaborazione attiva e continua con i palestinesi, nella convinzione che i due popoli potranno salvarsi e sopravvivere solo se lo faranno insieme. Tra i progetti, molto importante è “Saving Children”, nato nel novembre 2003 con l’obiettivo di curare bambini palestinesi negli ospedali israeliani.con la collaborazione del Centro Peres per la Pace, organizzazioni mediche israeliane e palestinesi, pediatri israeliani e palestinesi, e grazie a un consistente aiuto finanziario italiano (proveniente in gran parte da varie regioni) e attualmente riesce a occuparsi di più di 13000 bambini palestinesi, in diversi ospedali israeliani.
È fiera nonna di sette nipoti e vive con suo marito, Avraham, a Tel Aviv, poco lontano dal mare.
Quanta tristezza nel vedere i nostri soldati cadere, e quanta rabbia nel constatare che Netanyahu continua imperterrito nella sua non-politica della guerra, senza rispondere a nessuno dei suoi imperdonabili errori, incapace di fare teshuvà.