L’autore di “Chiamami col tuo nome” propone una riflessione sulla diversità
Vorrei iniziare con un’espressione che ho inventato in Chiamami col tuo nome. Si riferisce agli ebrei che vivono in un mondo completamente gentile e che, senza nascondere il loro essere ebrei, sono tuttavia riluttanti a proclamarlo. Non c’è, o almeno così pensano, un vero e proprio imperativo a proclamare la loro religione; possono anche vivere in un mondo in cui i cristiani e gli ebrei sono laici, possono perfino sposarsi tra loro e sono cresciuti nella tolleranza reciproca. Non si vergognano o temono di essere ebrei, ma sanno bene che non devono mettervi in evidenza quando non è proprio necessario farlo. Non si può dire a tutti che si è ebrei; al massimo, si lascia che alcuni lo deducano. Dopo almeno 2.000 anni di persecuzioni antisemite, la vostra differenza è qualcosa che imparate istintivamente a non sottolineare troppo. Ho chiamato questi ebrei “ebrei della discrezione”. Non nervosi, nemmeno apprensivi, solo discreti. O, per usare un’altra parola, prudenti.
Sono nato in Egitto durante gli anni di maggiore antisemitismo, quindi in una classe di una scuola maschile era prudente non rivelare che ero ebreo. Dopo tutto, lo Stato di Israele era stato creato 10 anni prima e nel 1958 l’Egitto era pieno di sentimenti antisemiti, anche perché diversi studenti della mia classe erano nati in Palestina. Non dissi a nessuno che ero ebreo; lasciai che tutti deducessero che ero cristiano. A volte ero un cristiano greco-ortodosso, a volte ero un cattolico, in seguito sono passato per un protestante. Ho imparato a farmi il segno della croce come fanno i cattolici e come fanno i greco-ortodossi. Durante le lezioni di nuoto, in cui dovevo spogliarmi, facevo in modo di dire che quella settimana avevo di nuovo il raffreddore e non potevo quindi nuotare, oppure ero l’ultimo a cambiarmi. Gli studenti a volte si lamentavano: «È sempre l’ultimo a cambiarsi e l’ultimo a uscire dalla piscina». Inutile dire che nascondevo il mio pene. I musulmani sono circoncisi, ma io ero un ragazzo bianco e pallido, e i bianchi erano solo cristiani. Se fossi stato circonciso, avrebbe significato che ero ebreo. Nemmeno i cristiani dovevano sapere che ero ebreo. Avrebbero fatto la spia con i ragazzi musulmani. Gli ebrei non piacevano a nessuno.
La differenza, non ci vuole un genio per capirlo, è raramente tollerata. Per capirlo, basta guardare un qualsiasi western per percepire che lo straniero che arriva in città ed entra in un saloon viene osservato non solo con sospetto dagli abitanti del luogo, ma con risentimento e ostile diffidenza. Lo straniero è sempre diverso, disprezzato, mai accolto e sempre scansato. Magari porta con sé un paio di abilità utili alla comunità, ma in ogni caso lascia la città dopo essere stato spudoratamente sfruttato dai residenti o perdendo la vita in un fatale atto di eroismo. Un estraneo non appartiene mai ai comuni mortali.
Esiste, e potrei anche accennare a questo sconosciuto ora, una figura molto comune nella letteratura spagnola del XVI e XVII secolo. È il picaro, da cui deriva la letteratura picaresca. Il picaro o il monello di strada o la canaglia resa famosa nel XX secolo dal personaggio sempre ricco di risorse di Reginald Jeeves di P.G. Wodehouse è un uomo assolutamente ingegnoso e sveglio che risolve ogni sorta di problema e serve il suo padrone con la più doverosa devozione. Nel romanzo picaresco, il padrone spagnolo lo rimprovera e di tanto in tanto lo prende a calci, ma il picaro accetta i maltrattamenti e risolve tutti i guai in cui il suo padrone si caccia e da cui non riesce a districarsi, a meno che il suo servitore furbo non si inventi un piano di salvataggio sorprendente e subdolo. Questo picaro alla Jeeves, nel mondo di oggi, sarebbe un avvocato che legge un contratto e poi ti dice cosa il contratto sta cercando di nascondere. È sempre molto abile nel trovare le soluzioni mediche giuste in caso di disturbi fisici, perché è anche un medico. La donna con cui avete trascorso una notte d’amore ha un marito geloso. Nessun problema: il picaro si prenderà cura di lui e gli racconterà storie per stemperare ogni suo sospetto. Un altro marito sta per cogliervi in flagrante, nessun problema: il picaro lo farà addormentare al tre. Avvocato, medico, commerciante, truffatore, astuto e furbo fino all’inverosimile eppure all’occhio ignaro un sempliciotto qualunque. I luoghi comuni sono tanti; in effetti, ogni stereotipo dell’ebreo – isterico, ciarlatano, medico, investitore fraudolento, faccendiere, truffatore, eccetera – è già inscritto nel picaro, e ogni possibile luogo comune sugli ebrei si applica a lui.
Il picaro può avere un nome, ma non è detto che sia il suo vero nome. Atterra sul palco con la stessa abilità con cui se ne va, proprio come Charlie Chaplin. Appare dal nulla e scompare nel nulla. Il picaro è, a mio avviso, un ebreo o un converso, cioè qualcuno che si è convertito o i cui genitori, nonni o antenati non troppo lontani si sono convertiti dalla fede ebraica a quella cristiana. Un altro nome per un ebreo converso è Marrano, un ebreo convertito al cristianesimo che non ha mai abbandonato la fede o le pratiche ebraiche. È inafferrabile e rimane il personaggio più scivoloso e sfuggente della letteratura. Il personaggio che più si avvicina al picaro è Nasiruddin Hodja, un personaggio del folklore del mondo musulmano, dai Balcani, alla Turchia, all’Iran, fino alla Cina, passando per la Sicilia e il Nordafrica, un personaggio la cui saggezza, astuzia e abilità nel frodare le truffe e superare le volpi rappresenta il tipo di saggezza che ho sempre cercato di possedere ma che non sono mai riuscito ad acquisire.
Ho detto che il picaro appare dal nulla e scompare senza necessariamente salutare. Non ha un nome vero e proprio, ma solo un appellativo acquisito che lo àncora brevemente tra gli altri, ma non per molto. È un vagabondo autoinventatosi senza paternità, un figlio di Dio, che tra l’altro è il cognome dato a molti orfani di un tempo – figlio di Dio, Crescimbene, Donadio, eccetera – o il tipo di cognome che si accettava troppo spesso a Ellis Island. Va bene, dice l’immigrato recente che muore dalla voglia di liberarsi di un’identità per acquisirne una nuova. Come scrisse una volta uno scrittore americano, «egli [scaturisce] dalla concezione platonica di se stesso. Era un figlio di Dio – un’espressione che, se significa qualcosa, significa proprio questo – e doveva occuparsi degli affari di suo Padre, un servizio di una vasta, volgare e meretrice bellezza». Il nome del personaggio in questione, il figlio di Dio, per così dire, che irrompe dal nulla e altrettanto facilmente scompare, ha il nome originale della famiglia di Gatz, altrimenti noto al mondo come Jay Gatsby.
Il picaro non è solo incredibilmente intraprendente e di successo nelle sue imprese, ma rappresenta ciò che mancava all’immaginazione ebraica: Rappresenta ciò che gli scrittori cauti e discreti che vivevano in un universo soffocante e senza sbocchi sul mare avevano bisogno di inventare: un personaggio dotato di quel tipo di potere manipolatorio che non erano in grado di esercitare nelle loro vite. In effetti, non è troppo difficile dimostrare che il picaro fu diffuso da scrittori conversi. La novella Lazarillo de Tormes fu quasi certamente scritta da un converso, La Celestina di Rojas fu anch’essa scritta da un converso, così come l’eccezionale romanzo picaresco di Mateo Alemán, Guzmán de Alfarache, anch’egli converso. A rischio di divagare, si tenga presente che a volte era preferibile affermare di avere ascendenze gitane piuttosto che di avere origini ebraiche o converse. Così, per citare un esempio facile, Lorenzo Da Ponte, l’autore ebreo ma convertito del libretto di Don Giovanni, Le nozze di Figaro e Cosi fan Tutte di Mozart, reclutò Mateo Garcia, di origine spagnola, perché si stabilisse a New York e cantasse opere di Rossini e Mozart, cosa che Garcia fece. Garcia sosteneva di essere uno zingaro. In realtà non lo era. Era ebreo. Ma soprattutto era il padre di una donna che Maria Callas idolatrava ma che non avrebbe mai potuto ascoltare, Maria Malibran, che morì giovane ma la cui sorella Pauline Viardot fu anch’essa una famosa cantante d’opera e che fu l’amante nientemeno che di Ivan Turgenev. Ma non avreste mai detto che tutti, da Da Ponte a Pauline Viardot, erano ebrei. Aggiungo che lo stesso Casanova sosteneva di avere origini gitane.
L’ebreo è ovunque, ma mai prima della fine del XX secolo gli ebrei sono stati, almeno in Occidente, più o meno aperti sulla loro religione. Il termine chiave è “più o meno”. Se devo basarmi sui miei amici più stretti dell’Europa occidentale, sarete sorpresi di sapere che quasi tutti sono ebrei decisamente discreti. Anch’io sono un ebreo di discrezione. Non proclamo il mio essere ebreo al mondo. Ma faccio qualcosa di molto più insidioso, come hanno fatto i miei amici ebrei con me. Lancio molti spunti sicuri e intercetto altrettanti spunti provenienti da loro. Ma a volte ci vogliono dai tre ai sei mesi per scoprire che la mia amica rumena è ebrea o che anche il suo fidanzato italiano è ebreo, o che molti dei miei amici in Europa sono, a conti fatti, non meno ebrei di me. Nessuno di noi pratica e, come me, molti non hanno nemmeno fatto il bar mitzvah. Siamo ebrei con discrezione. L’ebreo della discrezione significa essenzialmente un ebreo nascosto. Il presupposto è che nessun ebreo non è nascosto. L’ho detto in modo opaco, con una doppia negazione, per dare un’idea dell’identità imperfetta di chi si nasconde. Nessun ebreo è nascosto. Lo chiamo marranesimo psicologico. È iniziato in Spagna intorno al 1391. Cento anni dopo, nel 1492, divenne evidente che gli ebrei erano riusciti a infiltrarsi in tutte le professioni e in tutti i segmenti della società spagnola e portoghese dichiarandosi cristiani. Nel 1492 fu data loro una scelta: lasciare la penisola iberica o essere esaminati da quella che alla fine si rivelò essere l’Inquisizione. Quelli che se ne andarono continuarono a praticare l’ebraismo; quelli che rimasero morirono. Quando ho visitato la Spagna sono rimasto molto sconcertato nel constatare che la Spagna era riuscita a diventare completamente priva di ebrei. Gli ebrei che vivono oggi in Spagna sono per la maggior parte ebrei ashkenaziti che conoscono lo spagnolo perché sono fuggiti dai cosacchi e hanno vissuto per alcune generazioni in Sud America. Oggi in Spagna si ama affermare di avere sangue converso o marrano; è un’affermazione maliziosa, persino snob. Ma la maggior parte di loro sono cattolici convinti.
Nessun ebreo è nascosto. Ogni ebreo sa che almeno una volta nella vita ha dovuto evitare di rivelare la propria identità religiosa. Si è… si diventa ciò che non si è. All’inizio, come ho detto, la finzione è abbastanza facile da realizzare: Tutto ciò che comporta è che gli ebrei dichiarino di essere cristiani ma continuino a praticare l’ebraismo in privato. Alla fine, però, le due identità si fondono. Non solo non si riesce a capire dove inizia e dove finisce la menzogna, ma la performance si ritorce contro quando si comincia a mettere in discussione l’identità originaria. Essere ebrei significa solo non essere cristiani? O c’è qualcosa di più nell’identità ebraica che va oltre i prevedibili confronti con il cristianesimo? Più precisamente, come molti studiosi hanno sottolineato, le pratiche ebraiche vietate erano elencate ovunque; tutti sapevano quali fossero. Se si aveva bisogno di praticare rituali ebraici, bastava leggere l’elenco delle pratiche ebraiche proibite e praticarle al contrario. Gli ebrei accendono le candele il venerdì sera. Beh, accendono le candele in una stanza sotterranea. Gli ebrei non mangiano carne di maiale. Ebbene, evitate il consumo di carne di maiale, ma sappiate che la mancanza di carne di maiale potrebbe essere un segnale di pericolo. Pertanto, è bene avere carne di maiale in casa, ma non toccarla. Con il passare del tempo, però, forse non si sa più perché si accendono le candele o cosa si dice quando si accendono le candele, ora che anche lo studio dell’ebraico è proibito.
Ho detto questo per spiegare che anche sussurrare che si è di origine ebraica significa ben poco quando si finisce per conoscere il cattolicesimo meglio di quanto si conosca la propria religione. È come se il travestimento diventasse più familiare dei vostri vestiti normali, o quando la maschera si fonde con il vostro viso e pensate che la maschera vista più famigliare del vostro reale volto. La maschera è adatta a chi si ha bisogno di essere.
Ho frequentato le scuole dei gesuiti in Italia e posso dire che, sebbene i fratelli cristiani accettassero completamente il mio essere ebreo, per quella che chiamiamo osmosi ho imparato la religione cristiana molto, molto meglio di quanto conoscessi la mia. Ho imparato la mia fede ebraica non in Italia e certamente non in Egitto, dove saresti stato considerato un pazzo se avessi proclamato la tua fede ebraica, anche se alcuni lo facevano. Ho imparato l’ebraismo, o almeno i rudimenti, a New York, dove sono arrivato all’età di 17 anni. A quel punto era troppo tardi per rispettare la mia religione. Quando sono con i cristiani, alla fine dico loro che sono ebreo. Ma quando sono tra gli ebrei, faccio di tutto per suggerire che sono un ebreo talmente decaduto che potrei anche essere cristiano. Non appartengo a nessuno dei due campi. Mi viene in mente il personaggio di Tom Jones nel lungo romanzo di Joseph Fielding pubblicato nel XVIII secolo. È un trovatello, un bastardo, cresciuto da una famiglia aristocratica, ma quando Tom si riunisce con la gente comune, i suoi modi, il suo portamento e il suo modo di fare li costringono a considerarlo un aristocratico. Ma la domanda è: come si considera lui stesso? È un povero o un nobile? Allo stesso modo, sono un ebreo decaduto o un cristiano che ama dire, a volte, di essere ebreo? Sono un ebreo indeciso e la mia identità è transitoria, inaffidabile, sfuggente, instabile e sempre sventata.
Il marranismo psicologico inizia come una maschera abbastanza facile da indossare. Alla fine erode la vostra identità. La vostra anima, il vostro cuore, la vostra stessa mente possono essere desiderosi di rimanere ebrei, ma questa ebraicità è così facile da nascondere e negare che la metà delle volte non siete nemmeno più consapevoli di averla negata. In realtà, la vostra identità è disponibile attraverso i movimenti di negazione. Negare a se stessi di essere ebrei è l’unico modo per poter quasi toccare l’inafferrabile ebraismo. Alla fine, si riconosce l’ebraismo attraverso i gesti inconfondibili della negazione. La maschera, come ho detto, è più familiare del volto.
Se non altro per ribadire il concetto, ecco una frase tipica del mondo di oggi. Sono più bravo con i miei colleghi e amici che con i membri della mia famiglia. Alcuni si spingono anche oltre. Sono più me stesso con gli sconosciuti in treno che con le persone con cui vivo. Il motivo è semplice: State indossando la vostra maschera sociale e il bello è che non pensate nemmeno che sia una maschera. Pensi di essere te stesso. Il che a sua volta significa che con le persone più vicine, con quelle che ami davvero, non sei più te stesso – e per estrapolazione non sei nemmeno te stesso con te stesso.
Vogliamo tutti credere di avere un’identità di base, una roccia di solida autostima, eppure eccomi qui a spiegare l’esatto contrario, ovvero che l’identità è di per sé una cosa molto fragile. Forse non esiste nemmeno. Oppure si è persa e si è nascosta così profondamente che non si sa più se è mai esistita. Sono uno studioso del XVII secolo, in particolare del periodo barocco. Mi piace la mente barocca, perché era dedita a ogni sorta di ghirigori e spirali e soprattutto a infiniti doppi e tripli livelli, ai suoi molteplici rispecchiamenti e infiniti regressi e allontanamenti e alla sua tendenza a cercare la simulazione e la dissimulazione. Si simula la verità o si nasconde la verità, o entrambe?
Il nostro Francis Bacon (1561-1626) non avrebbe potuto dirlo meglio nel 1597. “Ci sono tre gradi di questo nascondere e velare l’io di un uomo. Il primo, la chiusura, la riservatezza e la segretezza; quando un uomo si lascia senza essere osservato o senza essere preso per quello che è. Il secondo, la dissimulazione, in negativo, quando un uomo lascia cadere segni e argomenti che dimostrano che non è quello che è. La terza, simulazione, in senso affermativo, quando un uomo finge e finge espressamente di essere [ciò che non è]”. L’uomo o finge di non essere ciò che è o finge di essere ciò che non è. So che c’è una differenza radicale tra questi due concetti, ma che il Signore mi aiuti se riesco a capire la differenza tra fingere di non essere ciò che si è o fingere di essere ciò che non si è.
Il concetto è diffuso in tutto il XVII secolo. Torquato Accetto (1590/98-1640) scrisse un libro intitolato Sulla dissimulazione onesta. Ma quello che ha avuto maggiore risonanza è Baltasar Gracián (1601-58). Gracián pubblicò per la prima volta il suo Manuale di saggezza mondana nel 1647, cioè 50 anni dopo che Bacone aveva pubblicato i suoi saggi. Perché parlo di Baltasar Gracián?
Per due motivi. Il primo è abbastanza ovvio. Chiunque portasse il nome di uno dei tre Magi (Caspar, Melchior, Balthasar) era molto probabilmente, ma non definitivamente, di origine ebraico-conversa. Gli ebrei spesso davano ai loro figli il nome di uno dei tre Magi, forse per evitare di usare i nomi degli apostoli stessi. Come ho accennato in precedenza, la deviazione non è una novità tra i cripto-giudei. Ironia della sorte, molti ebrei continuano oggi una pratica simile. Alla nascita la maggior parte degli ebrei riceve un nome secolare, ma il nome ebraico è diverso, anche se spesso inizia con la stessa lettera. Il mio secondo nome è Albert ma il mio nome ebraico è Abraham, Irving è Isaac, Seymour è Simon, ecc. Perché questa deviazione? Ma c’è un motivo più significativo per cui parlo di Gracián.
Gracián, l’autore del Manuale di saggezza mondana, è noto per aver superato Machiavelli! È lui che insegna ai lettori del suo Manuale dell’Oráculo come mentire dicendo la verità, come fare il doppio gioco con la coscienza pulita, come sviare lo sguardo penetrante di un possibile rivale superando il suo sguardo con il portamento retto di un santo, come decriptare ciò che gli altri dicono mentre si cripta ciò che si dice, come presumere che tutti siano coinvolti in questo doppio, triplo gioco di criptazione rendendosi conto che nulla, proprio nulla, è mai come appare. L’ultima traduzione del suo manuale portatile ha venduto 200.000 copie negli Stati Uniti all’inizio degli anni Novanta. Nel XVII secolo fu tradotto in francese da Amelot de la Houssaye, che aveva anche tradotto Machiavelli per i francesi.
Se c’è una sola parola che dovete ricordare di Gracián è doppiogiochista. Fondamentalmente esiste su due piattaforme, una che è tutta un dispositivo e un artificio e l’altra… e qui arriva la grande domanda. Qual è l’altra? La persona che decifra ciò che gli altri stanno criptando non solo deve diffidare dell’avversario, ma deve necessariamente rivoltarsi contro se stessa. Ci si può fidare di chi si è? Potete fidarvi dei vostri progetti, delle vostre motivazioni? Quando andiamo da uno psicoterapeuta o da un confessore o da un maestro di coscienza, non lo facciamo forse per scoprire quali parti sotterranee di noi sono impegnate a tramare a nostra insaputa? Che cos’è quest’altro? Sono finiti i giorni in cui eri un ebreo che fingeva di essere cristiano. Ora, il diavolo nell’equazione non è fuori di voi, ma opera all’interno. Il marrano psicologico è ora psicologicamente lacerato, perché il marranesimo in ultima analisi infligge la sua ferita internamente.
Vediamo questa ferita.
Una volta ho detto di aver scritto un romanzo intitolato Otto notti bianche in cui non si sa come si chiama il protagonista, né si conosce la sua cittadinanza, né, come spesso si lamentavano i recensori quando il libro uscì, che lavoro fa. Le consideravo obiezioni frivole: Siamo ancora ai tempi del realismo in cui è necessario radicare i nostri protagonisti per poterli identificare? A queste obiezioni ho risposto nel modo seguente: Se ti togliessi il tuo nome e cognome, la tua famiglia, i tuoi genitori, la tua istruzione, il nome della tua professione, il tuo luogo di nascita, la tua data di nascita, il tuo indirizzo di casa permanente e temporaneo, la tua nazionalità, la tua religione, lo specchio del bagno in modo che tu non abbia la percezione del tuo volto, se ti togliessi tutto questo avresti un’idea di chi sei? Di solito attribuiamo la nostra identità a… ammettiamolo, la attribuiamo a semplici parole, a qualcosa di esterno a noi. Ma se vi togliessi quelle parole, riuscireste a capire chi siete, che senso ha la vostra vita, che cosa volete dalla vita?
La mente barocca che si abbandona al marranismo si perde totalmente, perché gira a vuoto e non ha un terreno solido, cosicché tutto ciò che rimane non è né con il Me né con il non-Me: tutto ciò che rimane è un’identità che non sa se è falsa o non falsa. Non conosce nemmeno la differenza. O ha indossato troppe maschere, o ha mentito troppe volte, o, peggio ancora, sa che ogni domanda sull’identità invoca automaticamente dubbi accessori che mantengono la questione dell’identità irrisolta. La storia ha sempre favorito l’identità. Ma a mio avviso l’identità è irraggiungibile e illusoria. Per dirla con Samuel Beckett, siamo “espropriati dell’identità”. L’espropriazione dell’identità è, come sospetto, il costo nascosto dell’essere un ebreo con discrezione. Si ha una doppia identità. L’identità moderna, post-barocca, è indeterminata e non aderisce più a termini interni o esterni; la confusione dei due termini è ora parte integrante della nozione stessa di identità. Siamo per definizione sdoppiati. Come l’ellisse, non abbiamo un centro, ma due punti.
Ora, forse potete capire perché in Chiamami col tuo nome ho invocato quella che ho chiamato la sindrome di San Clemente. La Basilica di San Clemente non è una sola chiesa, ma ha una chiesa più antica sotto di sé, compreso un tempio pagano sotto la chiesa inferiore. Niente è unitario. Tutto è plurale. Gracián può non essere stato ebreo o di possibile estrazione ebraica, ma colgo in lui qualcosa che rivela la condizione degli ebrei, dei conversos e dei marrani del XVII secolo nella penisola iberica e della maggior parte degli ebrei che vivono oggi al di fuori di Israele e degli Stati Uniti. Non solo si indossa costantemente una maschera, il che comporta una costante auto-vigilanza – che è ciò che Gracián stesso consiglia – o ci si vede sempre come l’altro ci vede e quindi ci si sposta costantemente nello sguardo dell’altro. Si sta sempre in guardia. Si diventa ciò che non si è.
La situazione non potrebbe essere più diversa tra ebrei che non si sono rivelati l’uno all’altro. Si vuole cogliere un segno di riconoscimento da parte dell’altro, ma di quel segno si diffida. Nel resto del mondo sono pochi gli ebrei che si dichiarano apertamente tali. Sono cresciuto tra ebrei discreti.
Ci si rivolge a qualcuno come per chiedergli l’ora o un fiammifero per accendere una sigaretta. “Sei ebreo?”, muori dalla voglia di chiedere. Ma non puoi. Un ebreo che non ha sperimentato l’oscurità che si cela dietro il bisogno di scoprire se qualcun altro è ebreo non ha sperimentato cosa sia la vita nel resto del mondo. Gli ebrei come me sono contorti, sventati, ritardatari. Da questo, sospetto, anche se non ne ho le prove, si sviluppa quello che è uno dei tratti principali e più visibili della vita ebraica, che ho promesso di affrontare qui. E questo tratto è l’ironia. Non si tratta di ironia umoristica, ma della capacità, del desiderio, della necessità di stare su due sponde opposte del fiume, del desiderio di avere un visto di uscita pur rimanendo sul posto o, per usare un’altra metafora, del desiderio di attraversare l’Atlantico sentendo lo strattone perpetuo di una patria che non è mai stata la tua, né quella prima, né quella prima ancora. Per l’ebreo non esiste un’identità “ur”.
Lo dico a ragion veduta e, solo per riprendere quanto ho scritto e pubblicato altrove, sono nato in Egitto, ma non sono mai stato egiziano. Sono nato in una famiglia turca, ma non sono turco. Sono stato mandato in scuole britanniche in Egitto, ma non sono britannico. La mia famiglia è diventata cittadina italiana e ho imparato a parlare italiano, ma la mia lingua madre è il francese. I miei antenati sono ebrei sefarditi che hanno vissuto per secoli in Spagna. Tutti i miei nonni parlavano ladino. Per anni, da bambino, ho avuto l’errata convinzione di essere un ragazzo francese che, come tutti quelli che conoscevo in Egitto, sarebbe presto tornato in Francia. “Tornare” in Francia era già un paradosso, dato che praticamente nessuno dei miei parenti più stretti era francese o aveva mai messo piede in Francia. Ironia della sorte, nemmeno un grammo di me è francese. L’ironia mi caratterizza.
Non solo sono riluttante a rivelare la mia identità ebraica, velandola costantemente con molteplici specchi, ma mi sono aggrappato a un’identità alla quale non ho assolutamente diritto.
Un ebreo che non capisce l’ironia, che non vive e non pratica l’ironia non è un ebreo con cui posso identificarmi. Un ebreo che attraversa il Mar Rosso pienamente fiducioso che Dio gli abbia detto di seguire le orme di Mosè non è un ebreo nel mio timbro. Un ebreo che attraversa il Mar Rosso, ma lo fa con molta diffidenza e molti dubbi e si aspetta sempre che l’acqua gli crolli addosso nonostante le promesse di Dio, è un ebreo che capisco. Ha fede, ma la sua fede è sorvegliata, attenuata: sì, crede, ma la sua fede è sottolineata dalla sfiducia e da un profondo senso dell’ironia. L’ironia, se si è superstiziosi, protegge, influisce sul vittimismo anche quando non si è vittime.
L’ironia è usata per esprimere qualcosa di diverso da ciò che si dice, spesso il contrario di ciò che si dice, nascondendo sia il dichiarato che il non dichiarato. Nell’ironia non esiste un significato letterale e univoco: Esiste invece un significato dissimulato, un significato che non vuole dire molto di sé e che parla, per così dire, da entrambi i lati della bocca. La parola ironia deriva dal greco eiron, dissimulatore.
Un’ultima ironia. Per chi non lo sapesse, la parola ebraica, secondo alcuni studiosi, deriva dalla parola habiru o hapiru, che significa forestiero o qualcuno che ha attraversato. Attraversato in un’altra terra o attraversato il fiume? Non è chiaro. Ma mi piace questa definizione. Mi ricorda che gli ebrei vengono sempre da un’altra parte. La loro origine è “di là”.
Questa storia è apparsa originariamente in inglese sulla rivista Tablet, che ci ha accordato l’autorizzazione per tradurla e ripubblicrla.