Una recensione in compagnia dell’autore
Nel corso della sua opera, Primo Levi ricorda a più riprese Lorenzo Perrone, una figura che occuperà un posto di rilievo nella vita e nella memoria del chimico torinese: non sono moltissime, ma sono straordinarie le parole che Levi sceglie di dedicare all’uomo che ha contribuito in modo significativo a salvargli la vita. Anche Lorenzo è di poche parole, come suggerisce il titolo del libro, ma sono le sue azioni a contare più di tutto.
Con uno sguardo disincantato e al tempo stesso toccante, Levi sintetizza l’umanità pura e grezza di Lorenzo, muratore semianalfabeta di Fossano, piccolo centro del piemontese.
L’incontro tra i due avviene nell’estate del 1944, quando Levi è un prigioniero nel campo di Auschwitz-Monowitz, con il numero 174517 tatuato sul braccio e Lorenzo è un civile non prigioniero che svolge il proprio lavoro di muratore all’interno del campo per conto di un’azienda italiana che all’epoca collaborava con il Terzo Reich. Aveva precedentemente svolto lo stesso lavoro, l’unico che sapeva fare, tra non pochi sacrifici. La sua stessa natura si era forgiata lentamente al ritmo di incessanti viaggi tra il Piemonte e la Francia e successivamente ad Auschwitz, presso la fabbrica di gomma della I.G. Farben, la più grande azienda chimica tedesca del tempo, costruita per sfruttare la manodopera dei campi di concentramento.
Per mesi, Lorenzo offre a Primo e al suo amico Alberto cibo in avanzo, scrive in Italia per conto di Primo e recapita le risposte, dona a Levi una maglia per riscaldarsi. Tutto questo correndo grandi rischi, e tutti gesti compiuti senza aspettarsi nulla in cambio. In una delle prime volte in cui i due si sono scambiati qualche parola Levi lo avvisa subito «guarda che rischi a parlare con me» e Lorenzo gli aveva risposto «non me ne importa niente».
Nel suo libro più famoso Levi sottolinea ancora una volta che anche se l’aiuto sembrerebbe ridursi a «poco», non deve e non può essere sottovalutato. Le semplici attenzioni di Lorenzo hanno invece un valore inestimabile, con la stessa semplicità egli diceva: «Perché siamo in questo mondo se non per aiutarci fra noi?»
E sarà proprio Primo Levi, qualche anno dopo, ad affermare:
Lorenzo era un uomo; la sua umanità era pura e incontaminata, al di fuori di questo mondo di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo.
Ancora Levi, riconoscendo a Lorenzo il fatto di essere sopravvissuto, gli è grato «non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente rammentato, con la sua presenza, con il suo modo così piano e facile di essere buono, che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno di ancora puro e intero, di non corrotto e non selvaggio, estraneo all’odio e alla paura; una remota possibilità di bene, per cui tuttavia metteva conto di conservarsi».
Nel suo recente libro, Un uomo di poche parole. Storia di Lorenzo che salvò Primo (Laterza, 2023), lo storico e scrittore Carlo Greppi evidenzia come sia stato difficile per lui ricostruire la biografia di Lorenzo Perrone, dovendo far ricorso a ricerche personali condotte nel giro di alcuni anni. Attraverso una meticolosa e continua raccolta di dati, testimonianze e informazioni da più fonti e basandosi sugli scritti di Primo Levi, l’autore riesce a fornirci un profilo parziale di Lorenzo il muradur, citato con questo nome dal dialetto piemontese, riconoscendo la sua figura straordinaria e il suo ruolo cruciale nella salvezza di Levi.
Ho chiesto allo storico Greppi cosa avesse reso così speciale l’amicizia tra Lorenzo e Primo Levi, oltre l’aiuto materiale di Lorenzo a Primo dal giorno del loro incontro ad Auschwitz.
Carlo Greppi: Il riconoscersi umani tra gli umani, probabilmente. Entrambi hanno saputo vedere nell’altro sé stesso, in una sorta di gioco di specchi tra due persone che, pur provenienti da contesti sociali radicalmente differenti e pur appartenenti a generazioni diverse, erano entrambe riservate e sapevano distinguere il bene e opporsi al male. Credo che, in fondo, questa storia sia una grande lezione sul potere dell’amicizia, oltre che della solidarietà.
Mi sembra interessante tornare ancora una volta sul titolo dell’opera, Un uomo di poche parole, che suggerisce la natura riservata di Lorenzo, un profilo umano che traspare dalle ricerche effettuate da Greppi, trasmesso ai lettori con una narrazione accorata e attenta. Quando l’incubo finisce per entrambi, essi intraprendono separatamente la faticosa strada del ritorno. Lorenzo arriverà in Piemonte qualche mese prima di Levi, e il loro rientro segna una nuova fase nel loro ormai indissolubile legame. Adesso Lorenzo sente tutta la differenza delle loro condizioni: Primo rientra in Italia come chi sa che il futuro sarà sicuramente migliore di quanto appena vissuto, Lorenzo vive con disagio la sua condizione sociale, scegliendo di arrangiarsi come può e finendo sempre più nel circolo vizioso dell’alcool. Tra di loro vi è una corrispondenza epistolare e nelle lettere che Lorenzo scrive a Primo, trapelano per la prima volta le sue emozioni e il profondo affetto che provava per la persona che aveva salvato, ma che adesso chiama «Egreggio Signor Primo Levi» e a cui confessa «quanto lei parla di Auschwizz il pelo si riattrissa per me e meglio dimenticare quei bei momenti che abbiamo passato la». Tutta la contraddizione interiore di Lorenzo è espressa in queste proprie righe, in cui egli riesce a esternare l’orrore e allo stesso tempo la nostalgia per i momenti trascorsi con Primo Levi.
Carlo Greppi riesce nella difficile impresa, difficile perché confortata da poche e sparse notizie, di ricostruire le differenti fasi della vita di Lorenzo, dall’infanzia fino alla sua entrata nei campi come “volontario”, ma in realtà costretto, come tanti altri, a lavorare ai margini dell’orrore dei lager, fornendo la propria manodopera in condizioni non molto dissimili da quelle dei prigionieri nei campi di concentramento, questi ultimi definiti, come l’autore cita dallo stesso Levi, gli schiavi degli schiavi. Ne documenta anche il titolo di Giusto tra le Nazioni riconosciutogli il 7 giugno 1998 dallo Yad Vashem di Gerusalemme, ribadendo il peso e il rilievo del ruolo di Lorenzo, fin troppo trascurato dalla storiografia ufficiale.
Greppi sottolinea sia l’aiuto materiale che l’aiuto (inconsapevole) morale che Lorenzo era riuscito a dare a Primo e al suo amico Alberto, restituendo ai due prigionieri, attraverso il filo sottile di un’umanità insospettata, la speranza di salvezza che si è costantemente nutrita proprio grazie a Lorenzo e a quella forza invisibile che ha rimesso in piedi la possibilità di un mondo al di fuori di Auschwitz.
Così l’opera rigorosa e approfondita presentata da Carlo Greppi non solo onora la memoria di Lorenzo Perrone ma offre anche una prospettiva più ampia sulla generosità, l’umanità e il coraggio di Lorenzo, sottolineando come anche in mezzo all’orrore dell’Olocausto esistessero individui che, con poche parole e gesti, potevano incarnare la speranza e la resistenza. Primo Levi rimarrà grato per tutta la vita al suo amico Lorenzo, cercherà di non perdere mai i contatti con lui e soprattutto cercherà nei modi più disparati di aiutarlo, perché non si rassegnerà mai all’idea che Lorenzo, come scrive Greppi «aveva paura del mondo, non era più interessato a vivere, d’altra parte non lo aveva mica chiesto lui di nascere». Levi sarà presente al suo funerale accompagnato da sua moglie, e anche dopo questo momento farà sentire il suo affetto e la sua vicinanza alla famiglia di Lorenzo.
Le emozioni sono un tratto importante in questo libro. Chiedo ancora all’autore Carlo Greppi come ha gestito le sue emozioni personali durante la scrittura?
C.G.: Le ho rese parte del racconto: ho avuto momenti in cui la necessità di distogliere lo sguardo prevaleva e non sono mancate le esitazioni, ma ho deciso che avrei accompagnato lettori e lettrici in questa mia ricerca, in questo mio viaggio, in questo mio procedere a tratti incerto, e sicuramente doloroso per quanto riguarda la drammatica fine di Lorenzo. Ho cercato, per quanto possibile, di non celare i miei sentimenti. Perché penso che la conoscenza sia sempre un’avventura collettiva, un dialogo di una comunità in cammino, e siamo esseri umani noi tanto quanto coloro che studiamo e raccontiamo.
Classe 1991, è PhD Candidate dello IULM di Milano in Visual and Media Studies, cultrice della materia in Sistema e Cultura dei Musei. Studiosa della Shoah e delle sue forme di rappresentazione, in particolare legate alla museologia, è socia dell’Associazione Italiana Studi Giudaici.