Un racconto in prima persona della mobilitazione costante dei cittadini per sostenere chi non ha più nulla e chi combatte al fronte
Sono mesi che in Israele è un susseguirsi di funerali di soldati. Uno dietro l’altro, tutti organizzati alla perfezione comprese le regole in caso di allarme. “dobbiamo continuare fino a liberare il paese dal pericolo di Hamas, fino alla vittoria. Se ci fermiamo prima il nostro amato sarebbe morto invano…” hanno detto al funerale padri, madri mogli e compagni d’armi, stringendosi gli uni agli altri come un grappolo umano e singhiozzando. Nelle stesse ore alla Knesset parlava Aviva Siegel, tornata libera dopo 51 giorni.
“Mentre noi parliamo stanno stuprando le ragazze rimaste in ostaggio a Gaza. Le vestono come bambole, sono come dei burattini nelle loro mani. Fanno di loro quello che vogliono. Sono ragazzine, hanno 18, 20 anni. Finché ero lì cercavo di proteggerle ma ora sono rimaste sole. Abusano anche dei ragazzi, ma per le ragazze è peggio…ho visto tutto coi miei occhi…non riesco a respirare, non ce la faccio, è troppo dura…” Ogni morto in guerra è un pugno nello stomaco, ogni ostaggio ancora a Gaza ti spezza il cuore e toglie il sonno. Netanyahu e il ministro della difesa Gallant continuano ad affermare che l’esercito potrà vincere la guerra e contemporaneamente liberare gli ostaggi. Ma non è vero. O guerra o ostaggi. E gli ostaggi devono tornare. Non ne ho potuto più.
Ho spento la tv e chiuso il giornale e mi sono unita a mio marito nel volontariato che fa tre volte alla settimana. Abbiamo caricato la nostra automobile di scatoloni da portare a soldati e a sfollati e siamo partiti per la zona di confine con Gaza. In un’oretta ci arrivi. Negli scatoloni c’era un po’ di tutto; da un fornello a microonde a pentole e a coperte, a saponette, dentifrici, biancheria e chissà cos’altro ancora. Non c’è bisogno o richiesta di un soldato o di uno sfollato che non venga esaudita da un enorme supermarket del volontariato e da decine di autisti volontari come l’avvocato Dviri. E non c’è ambito in cui la solidarietà non si sia espressa in questi mesi.
Passiamo per la strada, ora sgombra e ben pulita, che fu teatro della fuga dalla festa Supernova e ai cespugli dentro i quali si erano inutilmente nascosti i ragazzi, e ci fermiamo poco lontano per distribuire alcuni scatoloni a dei riservisti che si preparano a tornare a combattere. Non sembrano proprio dei cadetti appena usciti da West Point: codino legato con l’elastico, barba, infangati, sbrindellati e un po’ sbracati.
Al kibbutz Beeri, uno dei luoghi più colpiti, sono posteggiate decine di automobili. La loro famosa tipografia ha ripreso a lavorare. Sono tornati a coltivare le patate, il grano e la jojoba. E lì vicino, come in una fata morgana, ci troviamo davanti a un campo punteggiato di rosso: sono fioriti anche quest’anno gli anemoni. Decido che è un buon segno.
Riusciamo a tornare a casa prima di rimanere bloccati dalle dimostrazioni al femminile per la liberazione degli ostaggi sulla autostrada Ayalon. A Kerem Shalom, valico di passaggio ai confini con Gaza, dimostranti di destra e altri parenti di ostaggi stavano invece dimostrando contro il passaggio dei camion con gli aiuti umanitari a Gaza, e proprio lì, a Gaza, dietro l’angolo, alcune donne avevano finalmente anche loro detto basta. E ci vuol coraggio a dirlo dove non c’è la libertà.
Nasce a Padova nel gennaio del 1949, ma vive in Israele dal 1968.
Inizia i suoi studi universitari in Israele e si laurea all’Università Bar-Ilan in letteratura comparata già madre dei primi due figli, Eyal (nato nel 69) e Michal (nel ’72). Jonathan, il terzo figlio, nasce nel 77, ma il 26 febbraio 1998 cade in combattimento durante uno scontro con gli Hezbollah in Libano. Era in servizio militare di leva. Da allora Manuela Dviri si dedica ad attività per la pace, inizialmente chiedendo il ritiro dell’esercito israeliano dal territorio libanese. Quella campagna verrà poi ricordata con il nome delle “Quattro Madri” e viene coronata dal successo.
Giornalista, scrive per tre testate israeliane, “Maariv”, “Yediot Aharonot” e “Haaretz” e per diverse italiane come Corriere Della sera, Vanity Fair, la Gazzetta dello Sport, Oggi , Il Fatto Quotidiano. Come scrittrice ha pubblicato tra gli altri un libro di racconti in ebraico dal titolo “Beizà shel shokolad” (L’uovo di cioccolata) e un testo per il teatro, “Terra di latte e miele”, in scena nel 2003 con Ottavia Piccolo e Enzo Curcuru, per la regia di Silvano Piccardi. È Stata insignita di vari premi per la pace e giornalistici tra cui il Premio “Peace and Reconciliation Award” del Centro Peres per la Pace, e il Premio Viareggio Repaci Internazionale.
La sua attività per la pace comprende moltissime iniziative di collaborazione attiva e continua con i palestinesi, nella convinzione che i due popoli potranno salvarsi e sopravvivere solo se lo faranno insieme. Tra i progetti, molto importante è “Saving Children”, nato nel novembre 2003 con l’obiettivo di curare bambini palestinesi negli ospedali israeliani.con la collaborazione del Centro Peres per la Pace, organizzazioni mediche israeliane e palestinesi, pediatri israeliani e palestinesi, e grazie a un consistente aiuto finanziario italiano (proveniente in gran parte da varie regioni) e attualmente riesce a occuparsi di più di 13000 bambini palestinesi, in diversi ospedali israeliani.
È fiera nonna di sette nipoti e vive con suo marito, Avraham, a Tel Aviv, poco lontano dal mare.