Hebraica
Chi sono i cristiani per gli ebrei?

A proposito di idolatria e leggi universali

Se all’uscita di una qualsiasi scuola ebraica chiedessimo agli studenti chi sia stato il primo ebreo, anche i meno inclini allo studio farebbero probabilmente il nome di Abramo, dando perciò la stessa risposta dei rabbini di oggi o del passato. Eppure per chi legge la Torà questa non è una risposta ovvia, dal momento che nel racconto biblico la legge viene accolta dal popolo riunito al monte Sinai, non da Abramo. Per la quasi bimillenaria tradizione rabbinica, in ogni caso, Abramo rimane l’iniziatore della storia ebraica.

Il libro di Bereshit/Genesi descrive Abramo come colui attraverso il quale “tutti i popoli della terra riceveranno benedizione”, riconoscendo al patriarca un ruolo decisivo per la storia non semplicemente della sua famiglia o dei suoi discendenti, e neppure di un singolo popolo, ma di tutta l’umanità. Abramo ha una missione universale da compiere, una missione che – detto per inciso – consentirà ai cristiani di interpretare Gesù come colui che, originando dal patto tra il mitico progenitore di Israele e Dio, può sacrificarsi per l’intera umanità e così realizzare questo patto pienamente. La missione viene quindi trasmessa da Abramo al popolo che da lui discende, secondo le precise parole di Dio. Questa tendenza ecumenica è saldamente presente sia nel corpus biblico, anche se naturalmente non in modo uniforme in tutti i libri che ne fanno parte, sia nella letteratura rabbinica più antica. Dal IV secolo l’interesse ebraico per la missione universalistica di Israele declina invece rapidamente, senza dubbio perché di questo concetto si è impossessato il cristianesimo ormai egemone. Così nel Talmud e nella civiltà rabbinica medievale prevale l’immagine del Sinai, cioè del patto tra il popolo ebraico e Dio, rispetto alla missione ecumenica di Abramo. Il midrash rilegge la stessa figura di Abramo alla luce del Sinai, facendone anacronisticamente il primo seguace di una legge – la Torà – che ai suoi tempi non è ancora stata data. L’idea di missione tanto saldamente presente nella vicenda di Abramo non è tuttavia estranea al patto del Sinai, quando secondo il racconto biblico un piccolo popolo di ex schiavi si assume paradossalmente la responsabilità di portare la benedizione di Dio all’intera umanità. “Sarete per me un regno di sacerdoti e un popolo santo”, cioè il nucleo della tanto spesso fraintesa elezione, si può riscrivere con la proporzione matematica
Israele : l’umanità = i sacerdoti : il popolo
e afferma che Israele ha una missione universale. Come i sacerdoti sono responsabili di fronte al popolo, così Israele è responsabile di fronte all’umanità tutta. In altre parole, Israele è stato creato per il mondo, non viceversa il mondo per Israele.

Sebbene anche il patto del Sinai abbia implicazioni universalistiche, viene comunque siglato dal solo popolo di Israele. La tradizione rabbinica, per gli altri popoli, parlerà di sette precetti fatti risalire al patto stipulato tra Dio e i discendenti di Noach (Noè) dopo il diluvio e tuttavia assenti nella Torà, per questo chiamati precetti noachidi. Per i rabbini dell’età del Talmud l’osservanza di queste regole deve essere la base di ogni genere di convivenza e di civiltà ed è tutto ciò che ai non ebrei viene richiesto. I sette precetti comprendono una legge positiva, l’obbligo della giustizia (attraverso l’istituzione di tribunali in grado di amministrarla), e sei divieti (idolatria, omicidio, incesto, furto, disprezzo del nome di Dio, consumazione di carne strappata a animali vivi). Sembra tutto lineare, ma proviamo a pensare alla figura di Abramo presentata nella Torà. Il patriarca è il primo ebreo oppure un noachide (fosse anche il primo), cioè un non ebreo che riconosce e rispetta le leggi fondamentali senza le quali non è concepibile qualsivoglia società? Abramo è il primo ebreo oppure un semplice giusto? La Torà racconta che Abramo osserva le leggi morali fondamentali – cioè, nel linguaggio rabbinico, i precetti noachidi – e pochi altri precetti specifici, il principale dei quali è la circoncisione. Allora perché Abramo è speciale? Riconosce che uno è il creatore del cielo e della terra e a lui si rivolge rifiutando l’idolatria, che per i rabbini rappresenta un sistema di ingiustizia e violenza radicale associato all’omicidio e all’incesto. È anche un giusto che aiuta gli altri, siano essi gli inviati di Dio a Mamre oppure i vicini cananei, e intercede perfino per gli abitanti di Sodoma minacciati di distruzione. Tutto questo ne fa una figura grande. Ma grande perché il primo ebreo oppure perché il primo monoteista? I motivi della grandezza di Abramo, incluso il riconoscimento di un unico Dio creatore, sono quelli che i rabbini identificheranno nell’osservanza dei precetti noachidi, cioè della legge morale a cui l’intera umanità deve attenersi, non l’adempimento delle leggi specifiche date al popolo di Israele soltanto più tardi, al Sinai. Va da sé che è precisamente questa ambiguità a consentire a tutte e tre le religioni/civiltà monoteiste, e non al solo ebraismo, di guardare alla figura di Abramo come al proprio progenitore.

I tre patti biblici dei figli di Noè, di Abramo e del Sinai sono i riferimenti con cui la tradizione rabbinica ha dovuto fare i conti quando ha cercato di definire natura ed eventuali limiti del rapporto tra ebrei e cristiani. In modo sintetico possiamo distinguere quattro fasi del rapporto tra ebrei e cristiani, cioè del modo con cui l’ebraismo ha definito la relazione con il cristianesimo.

Nei secoli I-II e.v. i giudeocristiani sono una corrente (o setta) ebraica tollerata, nonostante sviluppi opinioni diverse da quelle della maggioranza del popolo – che comunque non va ritenuto tutto coeso dietro l’unica egida dei rabbini, al contrario di come lasceranno intendere testi più tardi come la Mishnà, scritta alla fine del II secolo, e il Talmud. Nel corso del decisivo II secolo il giudeocristianesimo incontra la filosofia ellenistica, avviandosi a diventare una religione separata. In questo periodo non c’è traccia di una specifica arte cristiana, molto probabilmente perché l’arte in quanto tale è associata sia dagli ebrei sia dai giudeocristiani alla civiltà grecoromana. La separazione delle strade tra ebraismo rabbinico e cristianesimo avviene tra II e inizio III secolo, perciò il problema del rapporto tra due religioni autonome nel periodo precedente semplicemente non si pone. L’arte cristiana comincia a svilupparsi significativamente in questa fase di transizione, tuttavia ancora per alcuni secoli rimane quasi esclusivamente bidimensionale, come quella ebraica attestata nelle sinagoghe contemporanee, e non tridimensionale. Non include in altre parole ancora la statuaria, probabilmente per una presa di distanza dalle immagini di culto romane che sono idoli tridimensionali. Solo nel V-VI secolo comincia la grande diffusione del culto delle immagini cristiane, le icone, e ben più tardi quella delle statue. Nello stesso periodo gli ebrei abbandonano l’arte figurativa e cominciano a considerare i cristiani idolatri.

La letteratura rabbinica classica si pone al confine tra la prima e la seconda fase, e per questo non esprime un univoco giudizio sul cristianesimo, mentre etichetta come avodà zarà – “culto straniero” ed “estraneo”, dunque idolatria – le pratiche pagane. Possiamo aggiungere che nel Talmud, anche per via della scarsa propensione rabbinica ad affrontare problemi teorici e astratti, dei cristiani si parla molto meno di quanto ci potremmo aspettare. Nel medioevo la posizione rabbinica nei confronti di cristiani e cristianesimo si fa via via più smussata e condiscendente, con la maggioranza delle autorità delle comunità ebraiche in Italia, Francia e Germania a sostenere che esista una differenza netta tra i cristiani e gli antichi idolatri di cui parlano la Torà e il Talmud. Per i rabbini che vivono all’interno di società in larghissima maggioranza cristiane non sono applicabili ai cristiani né le norme del Deuteronomio (che comprendono anche la violenza al fine di sradicare l’idolatria, anche se soltanto in casi specifici) né quelle della Mishnà sulla avodà zarà. L’idea che i cristiani non siano idolatri si afferma definitivamente nel XIII secolo in Europa – anche se persistono opinioni minoritarie diverse – e rappresenta un paradosso su cui gli studiosi non smettono di interrogarsi, poiché è esattamente lo stesso periodo in cui cresce l’ostilità antiebraica nella società cristiana. Tra le spiegazioni addotte, quella classica di Jacob Katz (Exclusiveness and Tolerance) che insiste sullo sviluppo della società europea, specialmente in ambito urbano, che comporta crescenti e inevitabili rapporti economici e sociali della minoranza ebraica con la maggioranza cristiana; e quella più recente di Eugene Korn (The People Israel, Christianity, and the Covenantal Responsibility to History) che adduce una ragione apologetica da parte ebraica negli stessi anni in cui dotti cristiani, anche con l’ausilio di convertiti, cominciano a compulsare il Talmud alla ricerca di accuse e lazzi contro il cristianesimo, sospettando che ogni riferimento all’idolatria ivi contenuto rappresenti una velata critica anticristiana. La motivazione proposta da Katz è di adattamento ambientale, quella di Korn di autodifesa. In ogni caso in questi medesimi anni, dopo secoli di assenza e senza che sia intervenuto alcun cambiamento nella halakhà, torna a svilupparsi l’arte figurativa ebraica – un altro segno di trasformazione dell’atteggiamento verso la civiltà maggioritaria entro la quale immagini di ogni genere, bi e tridimensionali, hanno ormai un ruolo dominante. Rimangono per molti rabbini alcuni nodi problematici, a cominciare dalle dottrine della trinità e dell’incarnazione e dal culto delle immagini e dei santi. Tutti elementi assenti nell’islam, la cui essenza monoteistica infatti non costituisce un problema.

Tra la fine del medioevo e l’età moderna – mentre la persecuzione tocca il suo massimo con i pogrom, le prediche dei francescani, l’espulsione, la legislazione razzista sulla limpieza de sangre, i ghetti, l’inquisizione – le autorità ebraiche in Europa sono ormai sostanzialmente concordi sulla non idolatria del cristianesimo. Mentre gli ebrei sono tenuti a un monoteismo assoluto, ai non ebrei è sufficiente il rispetto dei sette precetti noachidi. Il cristianesimo viene così sancito come un sistema di credenze valido per i non ebrei.
A partire dalla fine del Settecento e poi nell’Ottocento alcuni importanti rabbini sostengono che il cristianesimo abbia avuto e abbia ancora un ruolo storico positivo nel diffondere alcuni dei valori fondamentali dell’ebraismo. Il cristianesimo dunque non solo non è idolatria, ma partecipa di quella moralizzazione del mondo che è intento comune dei monoteismi che discendono da Abramo. Il rabbino tedesco Jacob Emden, per esempio, scrive che “dobbiamo ritenere cristiani e musulmani strumenti per l’adempimento della profezia secondo cui un giorno la conoscenza di Dio sarà diffusa su tutta la terra” e che “i cristiani sradicarono la avodà zarà, rimossero gli idoli dei popoli pagani e li costrinsero a seguire le sette leggi noachidi”. Analogamente si esprime alcuni anni più tardi rav Samson Rafael Hirsh, secondo cui dal tronco dell’ebraismo nasce come un ramo laterale il cristianesimo “per portare al mondo – allora degradato da idolatria, violenza, immoralità e ogni genere di depravazione – almeno l’annuncio del Dio unico, della fratellanza di tutti gli uomini e della superiorità dell’uomo sulla bestia”. Questi autorevolissimi rabbini danno una valutazione positiva dei cristiani non nonostante le loro credenze, ma proprio a motivo di esse. Il cristianesimo, in altre parole, è qui inteso come elemento indispensabile per moralizzare il mondo. Un percorso differente dall’ebraismo, eppure rivolto al medesimo obiettivo.

Dopo il 7 ottobre le dichiarazioni di personalità di primo piano della Chiesa hanno rimesso in discussione, almeno in parte, decenni di dialogo successivi al concilio Vaticano II, che sessanta anni fa segnava una svolta nel rapporto tra cattolici ed ebrei. Se e come le posizioni assunte recentemente dalla Chiesa e dai suoi ministri – non solo sulla politica di Israele ma anche sulla civiltà e la tradizione ebraica – susciteranno ripensamenti nella percezione ebraica del cristianesimo rimane ancora tutto da vedere.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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