Cultura
Cento per cento inferno

In mostra a Torino trenta fotografie scattate da Ziv Koren nei luoghi del massacro. Immagini che documentano le atrocità e il loro impatto sulla società israeliana e nella vita quotidiana

È stato detto ed è bene ribadirlo. Il 7 ottobre non nasce dal nulla. Naturalmente non nel senso inteso dal segretario delle Nazioni Unite Guterres o in quello sotteso alle recenti dichiarazioni della funzionaria Francesca Albanese, secondo cui la strage compiuta dai terroristi palestinesi non ha a che fare con l’antisemitismo ma, si presume, con la supposta oppressione di cui Israele sarebbe responsabile. No, il 7 ottobre nasce dalla propaganda antiebraica che da decenni martella incessantemente ai quattro angoli del mondo non soltanto arabo bensì islamico dall’Africa atlantica al Borneo. Dall’educazione all’odio, dalla delegittimazione e disumanizzazione non genericamente degli israeliani – anche se sarebbe già abbastanza – ma proprio degli ebrei.

Un video prodotto al kibbutz Be’eri dall’artista israeliana Tamar Nissim mostra bene come il 7 ottobre non sia una sorpresa, se non per le dimensioni della strage, ma una possibilità concreta da quando Hamas nel 2006 si è impadronita con la violenza del controllo sulla Striscia di Gaza e ha cominciato a lanciare attacchi contro kibbutzim, moshavim e città israeliane. Il video di Tamar Nissim è del 2017 ed è stato ospitato dalla galleria di arte del kibbutz, distrutta anch’essa nell’attacco del 7 ottobre, prima di arrivare in Italia al MAXXI di Roma e alla Fondazione delle Stelline di Milano. Fino al 21 febbraio, insieme a tre altri video di differenti artisti israeliani, è in mostra a Torino negli spazi dell’Associazione Camis de Fonseca.

Il curatore Ermanno Tedeschi ha unito per l’occasione ai quattro cortometraggi, tutti girati a Be’eri tra il 2016 e il 2023 prima del giorno che ha trasformato per sempre Israele, trenta fotografie del fotoreporter israeliano Ziv Koren che documentano la scena successiva al massacro. Koren è stato ad Haiti e in Turchia dopo disastrosi terremoti, in Ucraina e nel sudest asiatico. La mia, dice, vuole essere “una testimonianza onesta di cosa è successo il 7 ottobre”, lasciando a chi guarda il giudizio. Il giorno stesso e quelli successivi al sabato nero ha fotografato i resti dei kibbutzim devastati: le case crivellate, i corpi ustionati, i giochi dei bambini abbandonati tra macchie di sangue e calcinacci, una tavola di Shabbat con due challot intrecciate sopra e la devastazione tutto intorno, le auto bruciate. E le lacrime dei primi soccorritori increduli, il funerale di una intera famiglia, i volti di quelli che i media di tutto il mondo etichettano sbrigativamente come “soldati”, omettendo sistematicamente che si tratta di giovani di venti anni e che il servizio militare nel loro paese sotto costante minaccia è un doloroso dovere. E anche le manifestazioni a Tel Aviv, nelle settimane successive, per il rilascio dei rapiti, come se fosse davvero possibile il loro rilascio incondizionato da parte dei rapitori. Non si vedono cadaveri.

Le fotografie dialogano con i video come il dopo con il prima. “Novantacinque per cento paradiso cinque per cento inferno” è il titolo dei quattro filmati uniti, a indicare la possibilità di vivere, di una quotidianità difficile eppure necessaria nonostante la minaccia costante. “Cento per cento inferno” quello dell’intera mostra, con il dopo. Tra i video “Maqtub”, di Shimon Pinto, raffigura la durezza della vita in una terra di confine mettendo in primo piano proprio lei, la terra fatta di zolle aride e sassi. Alle immagini della terra scavata a mani nude si alternano quelle di un albero spoglio ma imponente. Può crescere qualcosa in questo posto? E se sì, che cosa e a quale prezzo?

Il video che forse più di tutti colpisce è però quello che la regista Tamar Nissim ha intitolato “Il posto migliore dove crescere i bambini”. Vediamo i campi fioriti del kibbutz e sentiamo le parole di una decina di donne di tutte le età che raccontano sensazioni, paure, speranze. Il video è del 2017, ma oggi la maggior parte di queste donne non ci sono più perché sono state assassinate il 7 ottobre. La regista indugia sui colori della primavera qui ai confini del deserto e soprattutto sui papaveri, quei fiori che come nient’altro forse significano la caducità – oggi siamo qui, domani chissà. Le parole delle donne di Be’eri esprimono il timore, la solidarietà, l’appartenenza di chi sa di vivere sull’orlo di un precipizio, e tuttavia di un orlo che si chiama casa. Una dice di aver deciso di andarsene, di trasferirsi altrove con la famiglia non per sé ma per responsabilità verso i figli e le persone care. Una racconta dei missili e del gioco inventato per insegnare ai bambini a correre nella camera di sicurezza – “conto fino a dieci e poi arriva l’esplosione!” – un’altra del problema di fare la doccia e dei pochi secondi a disposizione dal suono dell’allarme, una terza del valium dato al cane per calmarlo quando si sentono, vicini, i razzi cadere. C’è anche chi sottolinea come il male faccia risaltare il bene – la coesione, la solidarietà, la volontà a non farsi piegare da un odio uguale e contrario verso chi dall’altra parte del confine promette morte – chi dice che a tutto ci si abitua, anche alla paura, chi parla di serenità come intermezzo fragile e prezioso tra una guerra e l’altra, chi della manipolazione della paura, che è una cosa seria, condotta da politici demagoghi che non mancano nemmeno qui in Israele.

Mostrare o non mostrare? Fare vedere l’eccidio oppure sottrarsi, come per protesta, all’esibizione del dolore, esibizione che tanto spesso diventa quella vile pornografia della sofferenza che dei terroristi di Hamas e dei loro fiancheggiatori qui in Occidente è un’arma? Il dolore è vero – anche a Gaza, soprattutto oggi a Gaza. C’è. Ma esibito, mercificato, sfruttato sordidamente dai terroristi che ne sono gli unici veri responsabili non diventa altro che uno strumento per centuplicare il dolore stesso. Uno strumento per la guerra, uno strumento di guerra. Ziv Koren e gli altri artisti israeliani pensano che mostrare sia un dovere, e che sia diverso da esibire se si mostra con onestà, senza giudicare. Il giudizio viene dopo, e spetta comunque a ciascun singolo visitatore.

Cento per cento inferno, a cura di Ermanno Tedeschi, Associazione Camis de Fonseca, via Pietro Micca 15, Torino; fino al 21 febbraio previa prenotazione a associazione.acribia@gmail.com.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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