La recensione del volume “Dat: da legge a fede. Le vicende di un termine costitutivo” a cura di Cosimo Nicolini Coen e pubblicato da Giappichelli
Le parole hanno una vita. Nascono, anche se spesso è difficile risalire alle origini diradando all’indietro le nebbie della storia, e ci si deve accontentare di fermarsi alle prime occorrenze scritte conservate. Vivono, si trasformano, muoiono e talvolta, magari dopo secoli, risorgono dalle proprie ceneri come l’araba fenice. Le parole più longeve sono di solito anche quelle che cambiano di più nel tempo. Di dat, che è una di queste parole, Abraham Melamed ricostruisce la storia appassionante in un libro di recente apparso in italiano nella cura di Cosimo Nicolini Coen e pubblicato da Giappichelli con il titolo Dat: da legge a fede. Le vicende di un termine costitutivo.
Leggerne le pagine dense costituisce un antidoto salutare nei confronti dell’anacronismo, uno degli errori in cui è più facile scivolare quando si guarda al passato, che consiste nel proiettare indietro, in tempi e testi lontani da noi, il significato attuale delle parole che usiamo. Dimenticando che i significati proprio come gli esseri umani sono storici, cioè mutano nel tempo, darwinianamente evolvono. Per esempio, tradurre la parola ebraica dat con religione in testi premoderni è un anacronismo che non tiene conto della metamorfosi del termine nei secoli, degli smottamenti semantici, di rovesciamenti e riprese imprevedibili.
La letteratura biblica, per cominciare. Dat, che deriva dall’antico persiano, non è una parola che troviamo spesso nel Tanakh, dove compare in testi tardi come la Meghillat Ester, Ezra e Daniele. Qui indica con chiarezza la legge di qualsiasi popolo, non quella specifica di Israele. “Venne promulgato un decreto a Susa”, racconta per esempio la Meghillà (9.14) impiegando dat nel significato di “decreto”, “legge”. Nel periodo del secondo tempio dat viene affiancata da altri termini come nimus (dal greco nomos) e Torà. Dat e nimus da principio indicano le leggi umane, positive – come nella Meghillà – ma un po’ alla volta cominciano a definire qualsiasi norma, sia essa umana o naturale o divina. Nella prima epoca rabbinica dat viene a riferirsi a un sistema di credenze e riti basato sulla fede in una rivelazione divina da cui deriva un determinato sistema normativo. Dat diventa così sinonimo di Torà, cioè lo specifico sistema normativo degli ebrei e nessun altro, attraverso una doppia torsione semantica: da una parte un restringimento perché non si riferisce più a tutti i tipi di legge ma esclusivamente a quella data a Mosè al Sinai, dall’altra un ampliamento perché non designa più soltanto una norma ma anche un sistema complesso di credenze, tradizioni e riti che alla norma è collegato. Le occorrenze che troviamo nella Mishnà e nel Talmud tuttavia sono poche, e fanno di dat un concetto relativamente marginale nella visione del mondo dei rabbini di epoca classica.
L’ascesa nell’uso della parola dat avviene nel medioevo sotto l’influenza decisiva della civiltà islamica. Oltre a essere utilizzata sempre più spesso, comincia a indicare un sistema di fede e credenza. Alcuni pensatori ebrei traducono la parola araba din con dat nel significato di fede – e l’espressione din Allah con dat emet, vera fede – e sha’aria con Torà oppure mitzvot nel significato di sistema normativo. Tra questi il primo a farlo in modo coerente e ponderato è Maimonide, che in tensione almeno in parte con la visione rabbinica classica e invece in continuità con la teologia islamica distingue chiaramente tra fede e legge. Maimonide distingue tra la legge divina, indicata come dat e coincidente con la Torà di Mosè, e la legge umana. In questo contesto dat (o din) diventa l’insieme delle credenze teologiche corrette. Maimonide è probabilmente più criticato che seguito dai contemporanei, ma il suo pensiero diventerà nel tempo uno dei pilastri della tradizione e anche la sua visione di dat come fede ricomparirà secoli più tardi in un contesto differente, come vedremo.
Ma la storia delle parole, come la storia tout court, è un percorso più simile a una abbarbicata mulattiera di montagna tutta curve che a una dritta autostrada, e allora non stupisce trovare nel tardo medioevo un nuovo significato di dat nell’ambito della cultura ebraica europea, influenzata dalla cultura cristianolatina. In alcuni autori dat indica adesso la legge positiva, razionale e naturale, in quanto tale distinta o in casi limite addirittura contrapposta alla legge rivelata, cioè la Torà. Ibn Waqar, per esempio, distingue tra legge naturale (dat tivit), legge umana (dat nimusit, da nomos) e legge divina (dat elohit), utilizzando comunque in tutti e tre i casi la parola dat e riprendendo anche se in un contesto del tutto diverso il significato biblico di legge. Yosef Albo, che rappresenta secondo Melamed un caso limite, indica con dat ogni tipologia di legge o costume, sia divina oppure umana, ebraica o non ebraica, riguardi molte prescrizioni oppure una sola. Cade in questo modo ogni riferimento specifico a dat come legge rivelata. Nell’uso che ne fa Albo, dat è sinonimo di chok, legge. Una manifestazione tardiva ma interessante del suo approccio possiamo trovarla nella traduzione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino in ebraico condotta nel 1794 all’Aja dopo l’occupazione francese dei Paesi Bassi, in cui la parola francese loi, legge, è resa proprio con dat e non con chok come ci si potrebbe aspettare. Nella primissima età moderna, nella riflessione di pensatori come Yitzchak Abrabanel o il Maharal di Praga, incontriamo l’opposizione tra dat, che indica l’insieme delle leggi umane o naturali, e Torà, che si riferisce alla superiore legge divina. Si tratta di un uso radicale di dat che tende però a scomparire già alla fine del Cinquecento.
Nell’età moderna la connotazione normativa di dat si indebolisce, con un ritorno al significato di fede presente per la prima volta in Maimonide. Questo ritorno è frutto però di influenze molto diverse rispetto a quelle che avevano orientato secoli prima la riflessione del filosofo spagnolo. Se su Maimonide agiva il modello della teologia islamica, adesso è la riforma protestante a fare da riferimento. Sia presso gli ebraisti cristiani sia presso i rabbini dat comincia a essere identificata con la religio latina, cioè la religione. La crescente influenza cristiana porta gli ebrei ad accentuare l’importanza di credenze, convinzioni teologiche e principi etici universali, cominciando a distinguerli dai precetti di ordine pratico, il cui ruolo nella definizione di ebraismo tende a indebolirsi. Tra i protagonisti di questa fase l’italiano Simone Luzzatto, che traduce per primo dat con religione, Spinoza e Moses Mendelssohn, pensatori differenti ma tutti integrati nella cultura alta del loro tempo. Per un lettore italiano abituato a sovrastimare il peso specifico della Chiesa cattolica e della sua dottrina nella storia può forse stupire l’insistenza con cui Melamed collega la trasformazione di dat in fede con l’influenza della riforma luterana, per la quale l’esperienza di fede del singolo individuo e non la sua appartenenza a una istituzione è ciò che davvero conta. Il legame individuale e diretto di ogni credente con Dio muta la religio in fede, segnando un rapido processo di confessionalizzazione che di fatto tocca sia le Chiese protestanti sia quella cattolica. Poiché l’ebraismo viene inteso ormai sia dai cristiani sia dagli ebrei come una tra le religioni, al centro della quale sta la fede, non stupisce trovare nell’uso la coincidenza dei termini emunà (adesione, fiducia, fede) e dat. È anche verosimile una influenza su questo processo del criptogiudaismo, con la prevalenza che gli ebrei nascosti, o marrani – inclusi spesso quelli che tornano all’ebraismo – conferiscono alla fede, cioè al foro interiore, sulla pratica delle mitzvot.
L’identificazione tra dat e religione (intesa ormai unanimemente come fede) si fa fortissima al tempo della haskalà, l’illuminismo ebraico, quando la protestantizzazione dell’ebraismo si radicalizza grazie all’incontro con la filosofia tedesca, largamente influenzata dalla teologia. L’ebraismo si divide in correnti diverse che però tendono a convergere sulla centralità della fede (dat), che precede l’osservanza e la fa derivare da essa (per la nuova ortodossia) oppure determina la non indispensabilità dell’osservanza (per la riforma). L’ebraismo in questo modo è pensato come un sistema non di precetti bensì (esclusivamente oppure prioritariamente) di credenze. Nachman Krochmal e Hermann Cohen, per esempio, sono due personalità per molti versi agli antipodi che però significativamente convergono su dat. Per Krochmal dat significa solo e semplicemente fede in Dio, ovvero ciò che in lingue diverse dall’ebraico viene indicato come religione. Hermann Cohen conia l’espressione “religione della ragione” e ritiene che tra le religioni storiche l’ebraismo sia quella che si avvicina più di tutte a questo modello autentico e razionale perché fin dall’epoca antica è proteso a sconfiggere il mito e la magia, che della ragione rappresentano la negazione e i più temibili avversari. Come i protestanti da Lutero in avanti si proponevano di tornare al mitico cristianesimo delle origini, così Cohen immagina un ritorno all’altrettanto mitico ebraismo biblico dei profeti, un ebraismo che suppone antecedente alle distorsioni particolaristiche prodotte dai rabbini della Mishnà e del Talmud. Coglieva certamente nel segno Franz Rosenzweig quando, nel 1924, introducendo una raccolta di scritti di Cohen scriveva che “tutti gli ebrei moderni, e gli ebrei tedeschi più di tutti gli altri, sono protestanti”.
Tra Ottocento e Novecento sono i riformati a stabilire nel modo più esplicito la centralità pressoché totale di dat come fede. Secondo la formula di Abraham Geiger non la nascita stabilisce chi è ebreo, ma la fede. Nient’altro fuori dall’adesione intima è dirimente, e l’ebraismo è di conseguenza una questione privata, una confessione. Più sottile e spesso implicito, ma non meno decisivo, è il modo in cui il nuovo significato di dat influenza correnti ebraiche che nascono in risposta polemica alla riforma come la nuova ortodossia charedì e l’ortodossia moderna. Già l’utilizzo che entrambe fanno della parola “ortodossia” – una espressione mutuata dal cristianesimo che alla lettera significa “opinione corretta” – indica la centralità che danno alla fede, che si arricchisce di un sistema dogmatico assente nella precedente tradizione rabbinica. L’ortodossia charedì reagisce non solo alla riforma ebraica ma anche alla modernità in generale secondo schemi per più aspetti analoghi a quelli della precedente controriforma cattolica e del contemporaneo dogma dell’infallibilità papale stabilito da Pio IX. I charedim per la prima volta nella storia ebraica affermano come verità di fede l’assenza di mutamento nella halakhà (secondo la formula del Chatam Sofer, “il nuovo è vietato dalla Torà”), considerano la circoncisione un dogma (rendendola così indispensabile per l’appartenenza ebraica – mentre in ottica tradizionale la sua assenza era considerata perlopiù una trasgressione – così come il battesimo è indispensabile per l’appartenenza cristiana). Anche l’ortodossia moderna, nonostante sottolinei la centralità della pratica delle mitzvot, dà alla fede un ruolo di primo piano. Per limitarsi a un esempio, uno dei suoi maggiori esponenti come Samson Rafael Hirsch non considera ebrei i riformati a causa delle loro opinioni, cioè della loro credenza o fede (dat), discostandosi così dalla posizione halakhica classica secondo cui l’ebraismo si trasmette alla nascita. Anche qui dunque quella che emerge è una definizione dottrinale di ebraismo.
Anche i sionisti non mettono in discussione l’equazione tra dat e fede. Tuttavia molti tra i primi sionisti rifiutano la concezione dell’ebraismo come religione, preferendo una connotazione nazionale – anche questo peraltro un prodotto del nazionalismo europeo. Per Moses Hess “l’ebraismo è una nazione” e “la religione – dat Israel – significa anzitutto patriottismo ebraico”. Va oltre Pinsker secondo cui dat, cioè la religione, non è altro che la reincarnazione moderna della bimillenaria passività ebraica rappresentata dall’attesa del messia. La religione va dunque rigettata perché gli ebrei compiano finalmente il passaggio all’esistenza attiva, da protagonisti della storia in grado di ricreare dopo il lungo esilio una autonoma comunità nazionale. Poi ci sono Herzl, Ahad Ha’Am, Brenner, Klatzkin, Kaufmann, Buber con la valorizzazione dello spontaneismo della civiltà chassidica, Gordon con il panteismo sionista-tolstojano, la dat avodà (“religione del lavoro”) dei kibbutzim e tante altre voci che non possono essere qui menzionate.
Un dizionario ebraico contemporaneo (Alcalay) definisce dat “fede in Dio, insegnamento e precetti stabiliti per coloro che aderiscono a tale fede”, menzionando quindi prima la fede e solo in secondo ordine l’elemento normativo. In altri dizionari odierni il secondo non è neanche citato. Allo stesso tempo nell’ebraico moderno dat è parola importante e diffusa. In Israele per distinguere religioso (datì) e non religioso (lo datì) tutti la usano, sia chi ci si riconosce sia chi no. Dat compare sempre più spesso anche in espressioni che indicano la religione della natura, dell’ambientalismo, della libertà, della scienza, del progresso, della memoria della Shoah eccetera. Significativamente, una analoga estensione nell’uso riguarda la parola Torà, che troviamo in formule come Torat Buddha (l’insegnamento di Buddha), Torat haPlaton (la filosofia di Platone), Torat haDarwin (la teoria di Darwin) e così via. Nel moderno stato di Israele, inoltre, ha guadagnato importanza quella che a questo punto possiamo ben definire una religione civile. In essa le feste della tradizione ebraica sono diventate feste nazionali, mentre celebrazioni laiche come il giorno dell’indipendenza hanno assunto forte colore religioso, anche con formule liturgiche e riti appositi.