Nel libro di Verbena Giambastiani il percorso intellettuale e umano di una dei più influenti teorici politici del XX secolo
Nel 1941, nel caos della Seconda Guerra Mondiale e fuggendo dal nazismo che minacciava di soffocare ogni sua libertà, Hannah Arendt giunge a New York come apolide in cerca di rifugio. È qui che inizia il racconto della sua vita intellettuale, un cammino che sarà scandito, silenziosamente ma significativamente, dalla presenza costante della sua fedele compagna: la macchina da scrivere. Nel libro di Verbena Giambastiani – “Ritratto su macchina da scrivere. Memorie di Hannah Arendt”, uscito per la casa editrice Mimesis – lo strumento utilizzato da Hannah per comporre le sue opere è un oggetto magico, immaginifico, un pretesto narrativo per raccontarla. Non sappiamo quale macchina usasse di preciso, soltanto che la ritrovarono morta vicino al suo apparecchio di lavoro. Così questo strumento essenziale per ogni riflessione, lettera e articolo di giornale, diventa il simbolo, il testimone silenzioso dei suoi pensieri più profondi e delle sue battaglie intellettuali. È battendo sui tasti che Arendt si lancia nella narrazione dei suoi temi centrali: la natura del potere, la banalità del male, la condizione umana.
Allieva di Martina Heidegger, arrivata in America dopo una fuga precipitosa da Berlino – viene arrestata dalla Gestapo in una biblioteca, sotto denuncia del bibliotecario stesso, con l’accusa di fomentare organizzazioni ebraiche sovversive – accompagnata dal secondo marito Heinrich Blucher, poeta e filosofo, dopo un primo momento in cui è sopraffatta dall’impatto con la metropoli e con il dolore dell’esilio, impara velocemente l’inglese, frequenta caffè, riannoda rapporti con correligionari francesi emigrati e conosce nuovi amici newyorkesi. Verbena Giambastiani prova a mettersi nei panni di Hannah, ce ne descrive gli stati d’animo, ipotizza dialoghi, la umanizza rendendola donna, moglie, intellettuale ansiosa. La macchina da scrivere non rimane muta a lungo. Di lì a poco, la scoperta della tragedia, dell’esistenza dei campi di sterminio, costituisce un trauma impossibile da superare, costante nella testa e nel cuore, che la fa avvicinare al sionismo, del quale comunque non approva l’ideologia, fino al 1961, quando si reca a Gerusalemme per assistere al processo di Adolf Eichmann.
E anche qui l’apparecchio è al suo fianco mentre compone i famosi articoli che susciteranno polemiche e discussioni accese. Quel concetto di “banalità del male”, espresso durante il processo, che continua a essere ancora oggi oggetto di dibattito e riflessione. Per Arendt infatti sotto la furia omicida nazista non si nasconde tanto la mostruosità o una volontà di eccidio quanto un’incoscienza, un’incapacità di empatia. Ricordiamo che i suoi scritti sono stati tradotti solo di recente in Israele, da lei criticato aspramente più volte, e che l’amico Sholem le scrisse che le “mancava l’amore per il popolo ebraico”, anche per le dichiarazioni sulle vittime della Shoah e sulla politica ambigua dello Judenrat, della leadership ebraica dei ghetti, a suo dire responsabile di aver collaborato con i nazisti.
Ma la storia di Arendt è molto più di quel processo giudiziario. È una vita intera dedicata alla ricerca della verità, della giustizia e della comprensione dell’umano. Nel libro assistiamo alla sua evoluzione intellettuale, ai suoi contrasti e alle sue sfide, fino a quell’ ultima sera nel 1975, quando viene trovata senza vita accanto al suo strumento di lavoro, ancora immersa nella stesura della terza parte de “La Vita della Mente”. La storia offerta al lettore si dipana tra le citazioni tratte dalle opere maggiori e la ricostruzione fantastica di personaggi e vicende a metà tra realtà e immaginazione, un viaggio che ci porta dalle tumultuose strade di New York, a Berlino, a Parigi, a Gerusalemme, durante il quale Arendt non cessa mai di indagare i recessi più profondi dell’esistenza e dell’anima.