Hebraica Nizozot/Scintille
Jacob Gordin e la “scuola francese di pensiero ebraico”

Ritratto biografico e filosofico del maestro ispiratore de l’Ècole Gilbert-Bloch d’Orsay

Negli scorsi anni s’è fatto un gran parlare del geniale maestro talmudico Monsieur Shushanì o Choushani (ne hanno scritto, trent’anni fa, Salomon Malka in un volume sottotitolato L’enigma di un maestro del XX secolo, tradotto da Alessandro Paris per Morcelliana nel 2017; e dieci anni fa Haim Baharier nel libro La valigia quasi vuota, edito da Garzanti). Ben pochi, invece, conoscono e onorano il meno enigmatico ma non certo meno geniale Monsieur Gordin, ossia Jacob Gordin (Dvinsk 1896-Lisbona 1947), che fu il vero maestro e l’ispiratore della cosiddetta “scuola francese di pensiero ebraico”, chiamata Ècole Gilbert-Bloch d’Orsay, nell’immediato secondo dopoguerra, motore del rinnovamento non solo del pensiero israelitico, come si diceva ancora in quegli anni, ma della stessa vita ebraica in Francia dopo la Shoà. Cresciuto in Russia a San Pietroburgo, Gordin studia Talmud con il padre (oltre a ebraico e aramaico, apprende anche l’arabo coranico) e si dedica alla filosofia, in particolare al neo-kantismo di Hermann Cohen. Scampando in Ucraina nell’anno della rivoluzione, scopre le comunità chassidiche e si immerge nello studio della qabbalà. Nel 1923 approda a Berlino, dove nel ’29 si addottora con una tesi intitolata Ricerche sulla teoria del giudizio infinito, che sarà l’unico suo libro pubblicato in vita (si tratta di un lavoro comparativo sulla dialettica in Hegel e in Cohen). All’ascesa di Hitler al potere, nel ’33, ripara infine a Parigi dove diviene bibliotecario all’Alliance Israélite Universelle svolgendo in parallelo un’intensa attività di insegnamento. Una malattia grave lo spegne, in un ospedale di Lisbona, nel 1947. Tra i suoi amici ci sono storici e filosofi del calibro di Léon Poliakov, Georges Wajda ed Emmanuel Levinas; tra i discepoli, che ne custodiranno la memoria “con immenso rispetto”, troviamo Léon Askénazi detto Manitou, Renée e André Neher, Emmanuel Rais e Marcel Goldmann.

Non è esagerato affermare che la Scuola di studi ebraici d’Orsay, creata da Robert Ruven Gamzon (ingegnere, fondatore anche degli scout ebraici francesi e morto in Israele nel 1961), fu una specie di “vigna di Javne” per l’ebraismo di Francia, così duramente colpita dall’occupazione nazista e dalle persecuzioni del governo di Vichy. Di questa Javne francofona, che seppe accogliere una generazione di ebrei provenienti dal Maghreb, tra cui André Chouraqui e lo stesso Manitou, Monsieur Gordin fu una luminosissima cometa che diffuse sapienza ebraica in un momento di profonda crisi, non solo instillando un ritrovato amore per le fonti classiche del giudaismo ma soprattutto rivoluzionando l’approccio ebraico alla modernità. In una parola, introdusse un nuovo paradigma o, se si preferisce, un nuovo metodo. Dice Léon Askénazi: «Ciò che un discepolo riceve dal proprio maestro, indipendentemente dai contenuti elaborati o suggeriti, è essenzialmente un metodo. Del metodo di Gordin, così come io l’ho potuto comprendere, e che a mia volta ho tentato di trasmettere, metterò in evidenza due punti essenziali» (dalla prefazione a Jacob Gordin, Écrits, Albin Michel, Paris 1995). In sintesi, i due punti sono questi: primo, il superamento dell’approccio etnografico agli studi ebraici; e secondo, l’adozione e la spiegazione della categoria di “storiosofia” accanto e oltre quella di “storiografia”.

Il primo punto è davvero innovativo: fino a quel momento il pensiero ebraico e il giudaismo nel suo complesso venivano “accettati” nella filosofia moderna come reperti di una archeologia intellettuale, pur nel senso più nobile del termine (in Francia quest’approccio ha cultori d’eccellenza come Levi-Strauss e Foucault); ma il risultato resta quello di spiegare il giudaismo sempre a partire da categorie occidentali, greche o greco-cristiane; si tratta invece – per chi voglia fare machshevet Israel ossia “pensiero ebraico” – di capovolgere i termini e di spiegare le categorie occidentali a partire dall’ebraismo e dalla semantica ebraica di termini e idee [di recente ne ho dato un esempio su Joimag con il concetto di “resurrezione”]. In tal modo si sottrae alla modernità il monopolio di un preteso universalismo, e si riscatta l’universalità intrinseca all’ebraismo di concetti e termini che dalla Bibbia e dalle fonti rabbiniche sono state via via assimilate nella cultura occidentale. A tal fine Gordin era maestro nel leggere l’essenziale nel dettaglio e ricostruire il contesto delle fonti, che fossero antiche o medievali, insegnando a soffermarsi e cogliere anche le minime sfumature di senso. In ciò egli fu facilitato dal suo multi-linguismo, in forza del quale il suo francese non era fluente e convenzionale, ma piuttosto spigoloso e ricercato e tale da costringere a ripensare anche le parole più ovvie.

Il secondo punto non è meno complesso: la categoria di “storiosofia” risulta ostica per la ratio della modernità, perché si tratta di un approccio alla storia a partire da un’esplicitazione di senso e/o di significati che fa leva sul concetto religioso di profezia (concetto che la storiografia, ossia la “storia scritta dagli storici”, non può accettare). Ebbene, proprio la profezia è categoria fondamentale del pensiero ebraico, come Maimonide e Spinoza mostrano ad abundantiam: si tratta di raccordare la storia odierna ai testi sacri o alla tradizione orale, ai midrashim, per avere da questi un’illuminazione su fatti, eventi e persone, e di converso cercare nei testi la cifra o la chiave degli eventi storici. Non è quello che si dice “il vaglio della ragion storica”; invece, occorre trovare un punto, nella cronologia storica, che trascenda l’orizzonte cronologico e adottarlo come sguardo sapienziale ed esplicativo, se non degli eventi in sé, del loro senso o significato trascendente. Cioè religioso. Innegabile che la dialettica storiografia/storiosofia costituisca uno snodo fondamentale – e controverso – di ogni filosofia ebraica della storia (e la questione era già stata affrontata dallo storico tedesco-israeliano Yitzhak F. Baer nel suo volume Galut del 1947, e poi ripresa dai successivi studi di Yosef Hayim Yerushalmi). Ecco perché Gordin ha lasciato il segno: ha introdotto il dubbio che il giudaismo sia soltanto un’appendice della storia della civiltà occidentale, rivendicando la sua capacità di vagliare e giudicare i limiti stessi di quella civiltà (ed eccoci di nuovo al confronto/scontro tra Hegel e Cohen…).

Non si sottovaluti, a posteriori, il fatto che molti dei discepoli diretti o indiretti di Jacob Gordin – e poi della scuola fondata da Gamzon – hanno finito per fare ‘aliyà in Israele: da Shlomo Pines a Léon Askénazi, da André Neher a Nathan Chouraqui, da rav Daniel Epstein a rav Marc-Alain Ouaknin… Nel cambio gordiniano di paradigma storico-religioso era inclusa, o almeno non era esclusa, l’opzione del sionismo. (PS. E non si confonda questo Jacob Gordin con quello Jacob Gordin che fu scrittore e drammaturgo jiddisch, nato a Odessa nel 1853 e morto a New York nel 1909).

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


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