Riflessioni e idee (creative) intorno alla partecipazione israeliana alla mostra internazionale d’arte
“Stranieri ovunque”. Questo il titolo proposto da Adriano Pedrosa, il curatore brasiliano della 60esima Biennale di Venezia, volta ad aprire lo sguardo anche verso popoli e popolazioni ai margini.
Ben prima del massacro del 7 ottobre, Mira Lapidot, Chief Curator del Tel Aviv Museum of Art, e Tamar Margalit, Curatrice del CCA – Center of Contemporary Art di Tel Aviv, avevano scelto come “straniera ovunque” l’opera (M)Otherland dell’artista Ruth Patir, che da anni dedica la sua arte allo studio della procreazione assistita, di cui lei stessa ha sperimentato – sulla propria pelle – il processo in uno stato come Israele che da sempre è Paese leader e all’avanguardia in materia.
Nel farlo, ha utilizzato il prototipo di antichi reperti archeologici che rappresentano dee della fertilità per trasformarli in personaggi animati che raccontano il loro processo di fecondazione nell’era contemporanea, attraverso l’ausilio della videoart.
I video e alcuni dei modelli degli antichi reperti archeologici si trovano ora esposti nel padiglione israeliano della Biennale di Venezia, salvo il fatto che è impossibile accedervi per via di quel cartello, affisso il giorno prima dell’inaugurazione ufficiale della mostra internazionale, in cui artista e curatrici annunciano l’intenzione di lasciare chiuso il padiglione fino al giorno in cui “verrà raggiunto un accordo per il cessate il fuoco e verranno rilasciati gli ostaggi”.
Messaggio chiaro e limpido. Salvo che la semantica, a volte, gioca brutti scherzi.
Da qui la diatriba, specie all’interno del mondo dell’arte israeliana, generata a causa di un messaggio che nel cercare, almeno nelle intenzioni, di unire tutti, in realtà ha creato molte divisioni.
In Israele, infatti, anche chi non è del settore ha subito sottolineato il grave errore nel porre gli ostaggi come conseguenza diretta, e non come conditio sine qua non per il cessate il fuoco. Soprattutto perché, a partire dal titolo del New York Times – in cui artiste e curatrici sono state intervistate il giorno prima dell’inaugurazione – il messaggio veicolato nel resto dei media internazionali è stato quello che “persino gli artisti israeliani chiedono un cessate il fuoco immediato”, reazione del tutto prevedibile in un mondo il cui le notizie vengono (ri)prodotte dai social e nessuno più arriva a leggere la seconda riga dei titoli dei giornali.
È stato anche sottolineato come, nel comunicato stampa in ebraico, non fosse sfuggito questo errore semantico. Tuttavia, rimane da chiedersi come possa essere sfuggito proprio nei confronti del pubblico internazionale che, a stento, dopo oltre 200 giorni di prigionia, ricorda la questione degli ostaggi.
Semantica a parte, la questione cruciale, su cui si continua a dibattere, è se ci fosse stata un’alternativa migliore o più o meno coraggiosa rispetto a quella di chiudere le porte fino al tanto atteso cessate il fuoco.
E all’interno del mondo dell’arte israeliana si sono ventilate possibili alternative, specie alla luce del grande tsunami internazionale scatenatosi contro la Biennale già lo sorso febbraio, affinché venisse negata la partecipazione di Israele al grande appuntamento.
Nonostante la risposta da parte dell’istituzione che ha immediatamente sottolineato l’impegno della Biennale, da sempre, nel garantire la presenza di tutti i Paesi con cui l’Italia detiene rapporti diplomatici, in molti, tra artisti e curatori israeliani, si sono interrogati sul senso di partecipare a questa grande kermesse internazionale, alla luce del massacro del 7 ottobre e delle enormi conseguenze sul piano militare e sulle popolazioni civili in Israele e nella Striscia di Gaza.
Molti si sono domandati perché, già alla luce dei fatti del 7 ottobre, le curartici non avessero proposto all’artista di cambiare il soggetto della mostra o, qualora l’artista non si fosse sentita in grado di affrontare un argomento tanto delicato, cercare qualche altro artista, magari optando per una mostra collettiva, che esplorasse il tema degli ostaggi, stranieri in terra nemica, diventato uno dei temi centrali tra molti degli artisti israeliani negli ultimi mesi.
Tsibi Geva, uno dei più grandi artisti della storia dell’arte israeliana – che ha rappresentato Israele nel corso della Biennale del 2015 e, oltre a essere docente di arte, ha anche più volte svolto il ruolo di curatore – aveva suggerito di rimandare la partecipazione di Patir alla Biennale del 2026 e di proiettare, invece, proprio all’interno del padiglione, il filmato di 45 minuti prodotto dall’IDF attraverso la documentazione registrata e diffusa dalle telecamere Go-pro dei terroristi di Hamas, nel corso del massacro del 7 ottobre.
C’è chi poi ha suggerito – come Shar Azimi, Direttore della residenza per artisti JAR, collocata nel cuore della città vecchia di Jaffa – che per non essere accusati di mostrare una sola parte del conflitto, una scelta coraggiosa avrebbe potuto essere quella di dipingere tutto il padiglione di nero, sia al suo interno che al suo esterno, in segno di lutto per tutte le vittime di una guerra ancora in corso.
Alla fine, invece, ha prevalso la scelta “Show must go on”, salvo il fatto che, almeno per il momento, lo spettacolo non sta affatto continuando.
O almeno sulla carta.
Una delle ulteriori critiche poste ad artista e curatrici, infatti, è che pur avendo optato per chiudere l’accesso al padiglione, grazie alla grande vetrata all’ingresso, sia comunque possibile “sbirciare” gran parte delle opere in mostra.
Non solo, c’è anche chi sostiene che, grazie all’intervista sul New York Times, sul quale sono state pubblicate molte immagini delle opere esposte, di fatto, anche senza scomodarsi per andare fino a Venezia, il padiglione israeliano e i il lavoro di Patir sono forse alcune delle opere che hanno avuto la maggiore visibilità mediatica di tutta la Biennale, contraddicendo lo stesso messaggio, e la semantica, del cartello esposto il giorno prima – e non il giorno stesso, quando sicuramente avrebbe ricevuto molta meno attenzione – dell’inaugurazione della Biennale.
Infine, non sono mancati gli addetti ai lavori che hanno sottolineato quanto, aldilà delle nobili intenzioni, l’opera di Patir sia stata realizzata, in ogni caso, grazie ai fondi governativi dello stesso governo che ora si trova al tavolo delle negoziazioni e che, soprattutto, nessuno dei frequentatori della Biennale, neppure i direttori dei più grandi musei del pianeta, abbiano alcun potere politico sul suddetto tavolo delle negoziazioni a cui, di fatto, a partecipare sono solo Hamas, Israele, Egitto, Qatar e Stati Uniti.
Forse avrebbe potuto essere significativo invitare artisti e curatori dei padiglioni di ciascuno di questi Paesi – tutti presenti alla Biennale, – a sedersi ad un tavolo “virtuale” delle negoziazioni, allestito proprio nel cuore dei Giardini, in cui provare a suggerire un accordo che possa essere firmato, e rispettato, da tutte le parti coinvolte. Se non altro come provocazione nei confronti di chi sfrutta la retorica del “cessate il fuoco” senza avere alcuna cognizione di causa su un conflitto le cui radici affondano molto prima del 7 ottobre, ragione per cui, purtroppo, ci vorrà ancora molto tempo prima che gli ostaggi possano tornare a casa e, solo allora, possa essere siglato un cessate il fuoco duraturo e permanente.
Curatrice presso il Museo Eretz Israel, nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un Dottorato in Antropologia a cui segue un Postdottorato e nel 2016 la nascita di Enrico: 50% italiano, 50% israeliano, come il suo compagno Udi. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è Tel Aviv – Mondo in tasca, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca, Laurana editore.