A pochi giorni dall’attentato in Nuova Zelanda, un dialogo con Lisa Palmieri Billig, rappresentante in Italia dell’American Jewish Committee
L’attentato in Nuova Zelanda è accaduto solo pochi giorni fa, a proclamare una supremazia bianca, contro la differenza. I fatti sono noti, il 28enne australiano Brenton Tarrant ha sparato sulla folla riunita nelle due moschee di Christchurch per la preghiera del venerdì, causando la morte di 50 persone. Uno shock lungo 17 minuti, esattamente quanto dura il video che ha postato su Facebook in cui mostra i fatti e un manifesto di 74 pagine, inviato poco prima di entrare in azione alla premier neozelandese Jacinda Arder. Tra le reazioni, quella della comunità ebraica locale, che ha scelto di chiudere le sinagoghe a Shabbat, in segno di solidarietà con la comunità musulmana. “Offriamo tutta la nostra assistenza e supporto alla comunità musulmana. Dobbiamo fare tutto quanto in nostro potere per bandire il terrorismo e il razzismo in Nuova Zelanda “, ha dichiarato Stephen Goodman, presidente del Consiglio ebraico della Nuova Zelanda. E da Pittsburgh, dove solo sei mesi prima è andato in scena un altro attentato che è costato la vita a 11 persone, questa volta in una sinagoga, la comunità ebraica fa sapere, attraverso il Time, che sta raccogliendo fondi per la comunità musulmana neozelandese. Il magazine The New Yorker propone un ragionamento interessante rispetto alle politiche americane a partire dalla dichiarazione di Brenton Tarrant in cui elegge Donald Trump a padre putativo, in quanto “a symbol of renewed white identity”, un simbolo della rinnovata identità bianca. E il titolo è già un invito: How to talk about New Zeland massacre: more sunlight, less oxygen. Perché la chiarezza è l’arma vincente per non alimentare l’odio.
Ecco. Proprio di odio e di dialogo interreligioso abbiamo parlato, poco prima dell’accaduto, con Lisa Palmieri Billig, rappresentante di AJC (American Jewish Committee) in Italia e di collegamento con la Santa Sede, promotrice del recente meeting romano, che ha visto protagonisti parlamentari di tutti i partiti, il ministero degli esteri, il segretario dello Stato Vaticano e il Papa stesso, in diversi appuntamenti (inclusa una meravigliosa cena di Shabbat) che avevano come unico obiettivo la pace. In effetti la pace e i diritti umani sono da sempre al centro degli obiettivi di AJC, tra i più antichi gruppi ebraici, nato in America nel 1906. Oggi si affaccia al mondo, non solo agli Stati Uniti, per portare avanti un’ipotesi di apertura, conoscenza e dialogo tra religioni e realtà diverse, nel nome della convivenza pacifica.
“Porto il messaggio ufficiale di AJC, che esprime solidarietà ai fratelli e alle sorelle musulmane”, fa sapere Palmieri Billig, “E vi informo che AJC ha creato un fondo per la ricostruzione delle due moschee colpite nell’attentato terroristico neozelandese e per sostenere gli orfani, i famigliari delle vittime e le loro comunità”. L’associazione americana è attiva già da tempo a creare un dialogo con l’Islam, così come con la Chiesa, con cui ha rapporti ormai di lunga data. Lo strumento principale, l’arma del suo successo, è la conoscenza. “Occorre combattere prima di tutto i pregiudizi”, spiega, ” spesso antichi e radicati molto profondamente. Ma conoscersi meglio significa rispettarsi, accogliere le diverse identità e lavorare insieme”. Un cammino sicuramente lungo, che però in Italia e nelle relazioni con il Vaticano, per esempio, comincia a dare i suoi frutti. E ad aprire le porte per una collaborazione nella lotta contro terrorismo e antisemitismo. Contro l’odio.
Tra gli obiettivi degli incontri a Roma anche quello di una presa di posizione dell’Italia. “La nostra richiesta è che l’Italia adotti, come hanno già fatto altri paesi, la definizione di antisemitismo stabilita dall’ IRHA (International Holocaust Remembrance Alliance) perché togliere i dubbi sulla definizione rende possibile un lavoro comune, anche nella diversità”. Il testo è molto articolato e tra gli altri tocca questi punti: è antisemitismo invocare, favorire, giustificare l’uccisione o la violenza contro gli ebrei in nome di un’ideologia radicale o di una visione estremista della religione; fare accuse mendaci, demonizzanti o stereotipate contro gli ebrei in quanto tali o contro il potere degli ebrei come collettivo – come, in particolare, il mito della cospirazione ebraica mondiale o del controllo ebraico dei media, dell’economia, del governo o di altre istituzioni sociali; accusare gli ebrei in quanto popolo, o Israele come Stato, di aver inventato o esagerato la Shoah; negare al popolo ebraico il diritto all’autodeterminazione, ad esempio sostenendo che l’esistenza dello Stato di Israele sia un’impresa razzista; fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei nazisti.
Il dibattito su questa definizione è aperto e tutt’ora in corso, ma certamente il metodo proposto da AJC per il dialogo è efficace. Perché chiarezza e precisione sono gli alleati della conoscenza, lo strumento indispensabile per sostenere la pace. A ogni latitudine e con ogni interlocutore.