Desideri di rinnovamento e richiami alla tradizione nella campagna elettorale dei partiti in campo
Che quella attuale sarebbe stata una primavera rovente per Israele lo si era intuito da un pezzo, sin dalle settimane conclusive del 2018, quando i rappresentanti della coalizione al governo hanno deciso di sciogliere il parlamento annunciando nuove votazioni, a conseguenza della crisi inaugurata dal dimissionario Avigdor Lieberman, Ministro della Difesa dell’ultima legislatura targata Netanyahu, e resa irreversibile dagli altri alleati del Likud. Forse pochi s’immaginavano però che, a pochi giorni di distanza dalle elezioni, Israele avrebbe dovuto assistere non soltanto alle ultime battute di una campagna elettorale a dir poco veemente, ma anche a un’ennesima fase del conflitto con i palestinesi, in seguito ai ripetuti lanci di missili dalla Striscia di Gaza, uno dei quali è arrivato a centrare in pieno una casa a Mishmeret, placida località nella pianura dello Sharon. Come si poteva facilmente prevedere, a dover fare i conti con le principali conseguenze politiche di questa ennesima crisi è stato soprattutto Binyamin Netanyahu, il quale da sempre ha fatto della sicurezza uno dei cavalli di battaglia del proprio programma elettorale e di governo. Non a caso, il premier in carica ha subito numerosi attacchi da parte sia della stampa sia dei rappresentanti dei partiti di ogni fazione, per aver fallito – secondo la loro linea di pensiero – nel preservare l’incolumità dei cittadini. Senza considerare poi i gravi guai giudiziari che il Primo Ministro, incriminato in tre casi di corruzione e frode, dovrà ancora affrontare nei prossimi giorni, verosimilmente dopo le elezioni. Da parte sua, nelle ultime settimane Netanyahu si è sempre detto sicuro di uscire indenne dal procedimento a proprio carico, accusando piuttosto gli avversari di aver costruito contro di lui una persecuzione politica per bieche finalità elettorali. Ciò nonostante, questa non sembra essere una questione destinata a lasciare indifferente l’opinione pubblica dello Stato ebraico, soprattutto se consideriamo che in Israele la corruzione – vera o presunta – di alte figure istituzionali è una “scoperta” relativamente recente. Ma procediamo con ordine e diamo uno sguardo alle principali forze politiche tra cui gli israeliani dovranno scegliere martedì 9 aprile.
I partiti, tra innovazione e tradizione
Pare ormai consolidato il declino dello storico partito laburista, HaʽAvodah (letteralmente “Il Lavoro”), il quale, secondo recenti sondaggi, nella prossima Knesset non dovrebbe ottenere più di una decina di seggi, segnando così la fine di un passato glorioso apparentemente incapace di rinnovarsi, almeno finora. Ciò avverrebbe nonostante gli sforzi dell’uomo nuovo del partito, Avi Gabbay, il leader inatteso al quale è stato affidato un tentativo di cambiamento che, tuttavia, non sembra convincere né gli elettori né la stampa specializzata. In ogni caso, la campagna elettorale di Gabbay e degli altri candidati di HaʽAvodah si è più volte curata di smentire il clima da naufragio “in stile Titanic” che molti hanno voluto ravvisare, individuando nelle dinamiche tra passato e futuro una possibile chiave di svolta per il partito. “Si torna al Lavoro”, “Il cambiamento. Il cammino. La squadra migliore”: in questo modo Gabbay e i suoi sperano tanto di (ri)catturare i voti di un elettorato deluso dagli ultimi anni di gestione interna del partito, quanto di persuadere nuovi elettori che la sinistra tradizionale ha realmente trasformato il proprio volto, prendendo le distanze dagli stereotipi negativi del passato.
Anche l’altra forza politica di sinistra, il Meretz, invoca la necessità di un cambiamento radicale, di cui si propone latrice principale e assoluta. A questo, almeno, sembra alludere il suo slogan principale, una formula di effetto immediato, che va a scomodare addirittura il sostantivo mahapakh, il celebre neologismo coniato nel 1977 dal giornalista televisivo Haim Yavin nell’annunciare l’incredibile “ribaltone” che aveva sancito la sconfitta della sinistra nelle elezioni dello stesso anno. La frase è di difficile traduzione in italiano, ma all’incirca potrebbe suonare così: “non c’è ribaltamento (o ribaltone) senza Meretz”. Comunque, il messaggio arriva forte e chiaro: in Israele c’è bisogno di un drastico mutamento di rotta, capace di ricollocare gli oppositori di Netanyahu e del Likud al centro della scena. Alla volontà di rovesciare le sorti – individuali, della sinistra e del Paese intero – la campagna del Meretz ha voluto mettere in luce un altro aspetto distintivo del proprio gruppo, vale a dire il profondo valore ideologico della tradizione cui appartiene. “Onestà”, “diritti per tutti”, “impegno per la pace” sono quindi le parole-chiave che il partito della candidata Tamar Zandberg ha scelto di riproporre. Anche lo scrittore David Grossman ha prestato il proprio sostegno e il proprio volto al Meretz. Su uno dei manifesti elettorali del partito spicca, infatti, l’inconfondibile sorriso dello scrittore circondato da una frase eloquente: “Meretz è il mio partito perché dice quello che pensa”.
Trasferendoci sull’altro fronte, tra le forze conservatrici, se la nuova destra sionista capeggiata da Naftali Bennet propone come slogan d’immediato richiamo una specie di neologismo, yehudisraeliemini, “ebreoisraelianodidestra”, per sintetizzare in un’unica parola i propri elementi caratteristici, Avigdor Lieberman si presenta da solo sui manifesti elettorali di Israel Beitenu e si proclama “sia di destra sia laico”. Tra i partiti religiosi, invece, il gruppo ashkenazita Yahadut Ha-Torah procede su binari più noti e tradizionali, utilizzando espressioni tipiche del lessico dell’ebraismo classico ma al tempo stesso ricorda agli elettori che si tratta di votazioni reali e decisive, giacché la nazione è giunta “al momento della verità”.
Un’impronta molto più contemporanea, almeno sul fronte stilistico ed esteriore, ha caratterizzato, invece, la campagna elettorale del gruppo religioso sefardita dello Shas, i cui rappresentanti devono aver intuito l’importanza ormai definitiva dell’immagine anche nella politica israeliana, persino per l’elettorato haredi. Pertanto niente slogan prettamente religiosi. Al loro posto, un messaggio conciso e agevole: “c’è ancora molto da fare”.
I due poli della sfida
Stando a quanto riportano i sondaggi, la vera partita delle elezioni del 9 aprile dovrebbe però giocarsi tra due Binyamin, rispettivamente Netanyahu e Gantz. Senza dubbio la campagna elettorale del partito di Netanyahu è stata massiccia, anche per contrastare le polemiche violente che spesso hanno accompagnato il premier e la sua famiglia nel corso degli ultimi anni. Pur in mezzo alla tempesta, l’attuale Primo Ministro ha voluto ribadire la propria lealtà alla nazione, senza troppi fronzoli né giri di parole. Non a caso il messaggio principale della sua campagna consta di tre vocaboli soltanto – “Netanyahu. Destra. Forte.” – i quali vogliono riassumere l’intera esperienza politica del leader del Likud, passato, presente e futuro.
Al di là delle numerose controversie che hanno caratterizzato i mesi precedenti le elezioni, l’astro nascente della politica israeliana e la star indiscussa della campagna elettorale – nel bene e nel male – è stato indubbiamente Binyamin “Benny” Gantz. Classe 1959, figlio di genitori sopravvissuti alla Shoah e capo di stato maggiore generale dal 2011 al 2015, all’inizio dell’anno Gantz ha annunciato la propria intenzione a candidarsi alle elezioni con un breve video, in apparenza semplice, quasi scarno, eppure molto ben costruito da un punto di vista politico. L’intenzione sembra essere quella di mostrare una palese distanza dalla politica tradizionale, esprimendo concretezza e solidità rivoluzionarie: “Per me Israele viene prima di tutto, unitevi a me e andremo per una nuova strada. C’è bisogno di agire diversamente e noi faremo diversamente”. La stessa vigorosa essenzialità è racchiusa nel nome della coalizione che Gantz ha formato con Yair Lapid e Moshe Yaʽalon, Kahol Lavan, “Azzurro e bianco”, un evidente richiamo alla bandiera dello Stato d’Israele e a quanto essa rappresenta. A un primo sguardo, Gantz denota l’affidabilità tipica dei veterani di lungo corso, quelli che hanno visto situazioni di ogni genere e affrontato prove insormontabili. Resta da vedere se l’ex capo di Stato Maggiore riuscirà davvero a conquistare gli elettori israeliani, nonostante i passi falsi in diversi discorsi pubblici e l’incertezza rivelata durante i confronti televisivi determinanti. Nel caso di una sua vittoria, la vera sfida per Gantz sarà incarnare realmente il cambiamento, non soltanto a parole, dimostrando di non essere un principiante della politica né il simulacro vuoto di grandi personaggi del passato.
Sara Ferrari insegna Lingua e Cultura Ebraica presso l’Università degli Studi di Milano ed ebraico biblico presso il Centro Culturale Protestante della stessa città. Si occupa di letteratura ebraica moderna e contemporanea, principalmente di poesia, con alcune incursioni in ambito cinematografico. Tra le sue pubblicazioni: Forte come la morte è l’amore. Tremila anni di poesia d’amore ebraica (Salomone Belforte Editore, 2007); La notte tace. La Shoah nella poesia ebraica (Salomone Belforte Editore, 2010), Poeti e poesie della Bibbia (Claudiana editrice, 2018). Ha tradotto e curato le edizioni italiane di Yehuda Amichai, Nel giardino pubblico (A Oriente!, 2008) e Uri Orlev, Poesie scritte a tredici anni a Bergen-Belsen (Editrice La Giuntina, 2013).