Joi in
Musica ed ebraismo raccontati da un rabbino musicista

Breve viaggio tra due mondi che dialogano armoniosamente tra loro. E garantiscono di assaggiare il sublime

La musica, specie se praticata – suonata e studiata –, è un viatico eccezionale verso la profondità. Si raggiunge la concentrazione in una tensione verso il sublime che soddisfa almeno per un po’ quella tendenza tutta umana verso l’assoluto. E lo studio della Torah, in maniera certamente molto diversa, risponde a un analogo bisogno, insieme a quello della ricerca di punti di vista diversi, non abituali, sulle cose. Del loro rapporto abbiamo parlato con rav Haim Cipriani, violinista, direttore d’orchestra e rabbino. Qual è il punto di incontro tra musica e Torah? “L’elemento di unione sono io”, risponde subito “Perché è la persona, l’individuo, che plasma questo tipo di attività. Per me, sono due attività che sollecitano la riflessione, un pensamento e un ripensamento sulle cose. Nel fare musica e nello studio della letteratura rabbinica cerco di proporre qualcosa che non sia mai immediatamente evidente”.

Andando più nei dettagli, “La parola rabbino indica l’insegnante e il musicista è un operatore culturale, le cui scelte hanno il compito di far pensare. Dunque in entrambi i casi è la ricerca a guidare il lavoro”. Lasciamo la parola al maestro-ricercatore.

Ebraismo e musica

La musica nell’ebraismo ha sempre avuto un ruolo simile a quello che aveva nella drammaturgia antica e greca: tutto viene cantato o cantillato. Ma a mio avviso non esiste una musica prettamente ebraica. Quelle adottate sono tutte espressioni mutuate dalle culture con cui le varie comunità hanno convissuto. Siamo al classico paradosso: gli ebrei fanno di tutto per preservare la propria identità ed evitare una diluizione nelle culture di maggioranza, ma ne recuperano le tradizioni. Al punto che nell’800 c’erano canti ebraici sulle melodie di quelli di Natale (con tanto di discussioni rabbiniche sulla kasherizzazione possibile dei canti di Natale). Non è affatto un limite, ed è esattamente quanto è accaduto nella cucina: la mediazione con la musica (o i sapori) degli altri fa parte dello sviluppo culturale ebraico. È una sua ricchezza, basata sul connubio tra una specificità ricercata e il riuso. Così esiste un repertorio musicale barocco ebraico creato su un modello non ebraico che, all’ascolto, crea una dissonanza cognitiva.

La parola

La grande difficoltà di questo riuso sta proprio nell’adattamento a un altro spirito e a un altro linguaggio di quel repertorio, conferendo all’opera un certo fascino. Nel nostro caso, è il testo il garante dell’ebraicità dell’operazione. Ed essendo un testo scritto in ebraico, è il suono di quelle parole a renderlo indiscutibilmente unico. Per la cultura occidentale, la lingua ebraica ha troppe consonanti e suoni che risultano poco musicali e questi due elementi sono quelli su cui il cantore sinagogale deve lavorare di più. È una scelta artistica che, se viene colta in maniera esplorativa e creativa, può dare risultati sorprendenti: musicalmente siamo di fronte a un repertorio barocco, ma i suoni vocali sono decisamente ebraici e mediorientali. Ecco la dissonanza cognitiva: unisce due mondi apparentemente o comunemente intesi come lontanissimi. Eppure non solo si parlano ma convivono armoniosamente.

Di cantori, cori e liturgie

Negli ultimi decenni, soprattutto negli Stati Uniti e in Israele, sono nate delle vere e proprie scuole per cantori che preparano gli studenti in maniera molto specializzata. Alcune sinagoghe hanno magari due o tre cantori che sono anche vicerabbini e spesso officiano anche, altre volte hanno un rabbino e un cantore e in alcuni casi ci sono anche dei cori. In ambito Reform, molte donne partecipano ai cori, mentre in quello ortodosso sono solo per gli uomini. Sono tutti modi per rivitalizzare la vita sinagogale, un po’ come hanno fatto i cristiani rendendo i canti più facili, quasi pop, in modo da poter essere cantati dai ragazzi con le chitarre, abbassandone tragicamente il livello musicale. Ma il rischio, per quanto riguarda l’ambito ebraico, è di impoverire l’aspetto collettivo della liturgia. Può essere affascinante andare ad ascoltare cori e cantori, ma diventa difficile partecipare alla preghiera. L’esecuzione musicale di un coro richiede una preparazione e il pubblico sinagogale, naturalmente, non può che restare in ascolto, perdendo il suo ruolo attivo.

Il sublime

Disciplina e regolarità sono gli unici strumenti per raggiungere quella dimensione che chiamiamo il sublime. C’è anche il talento, ma vale in una quantità minima, il resto è lavoro. Sia che si cerchi il sublime nella musica, sia nei testi ebraici, e nella vita ebraica in generale. Bisogna fare scale e arpeggi per creare la giusta tensione fisica e spirituale, ovvero seguire una particolare educazione corporale e gestuale che diventa una disciplina del vivere. C’è chi si ferma qui, acquisendo una certa competenza tecnica senza però mai volare. E poi c’è invece chi trova la strada per andare oltre. Allora raggiungerà profondità inattese e vibrazioni intime e misteriose che accomunano tutti gli esseri umani. Ma occorre partire dalla tecnica: in musica, bisogna impadronirsene per poi far affiorare il discorso musicale, e anche aspetti dello stesso che sono legati, per esempio, alla biografia del compositore o ad avvenimenti storici dell’epoca. Nello studio dei testi ebraici si parte dalla conoscenza “tecnica”, che ha anche un aspetto filologico e storico, delle parole utilizzate per poi studiarli dal punto di vista filosofico, storico, sociologico: il testo ha sempre una storia non detta che va capita. E poi, i brani musicali hanno una vita che si sviluppa attraverso diverse esecuzioni. Io prediligo il repertorio barocco come musicista perché è quello con meno indicazioni scritte e un enorme margine per l’interprete che è come un secondo compositore: ogni esecuzione è una nuova composizione. Lo stesso accade negli studi ebraici: non può esserci casa di studio senza innovazione [TB Chaghigà 3a].

Creatività talmudica

Oggi si è un po’ persa questa attitudine, ma io credo sia necessaria: la tradizione ebraica ci ricorda che al fine di comprenderli intimamente, i testi devono essere percossi come la roccia con il martello [TB Sanhedrin 34a]. Certamente è necessario dosare la pressione, ma un po’ di energia ci vuole, se vogliamo svelare ciò che è stato velato fino a quel momento. Talvolta anche le cosiddette eresie servono a fertilizzare il terreno, che altrimenti si inaridisce nel dogmatismo e nel pensiero unico. Il fine non è il rispetto dei testi, musicali o religiosi, ma la loro comprensione, la trasmissione di quello che hanno da dirci e il fatto che essi possano continuare ad accompagnare la nostra crescita spirituale. In questo caso il fine giustifica ampiamente i mezzi. Non credo che la crisi che l’ebraismo contemporaneo sta vivendo, connessa al timore della sua diluizione nella società, vada arginata solo con la ricerca di una purezza e di un rigore assoluti. Sono più propenso a pensare che invece l’apertura e la creatività di lettura, dei testi come della vita umana, potrebbero dare una grande spinta alla sua valorizzazione.

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Haim Fabrizio Cipriani è rabbino presso le comunità francesi ULIF (Marsiglia) e Kehilat Kedem (Montpellier). In Italia è rabbino e fondatore della comunità Etz Haim ( http://www.etzhaim.eu ). Inoltre è autore di svariati saggi a tema ebraico, editi da Giuntina. Parallelamente svolge attività concertistica e didattica in tutto il mondo come violinista e direttore d’orchestra specializzato nel repertorio barocco. In questo campo ha realizzato centinaia di incisioni discografiche e si è prodotto in migliaia di concerti nelle più grande sale.

 

Micol De Pas

È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.


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