Joi with
Casa Bianca, il “family affair” che spaventa gli addetti alla sicurezza

Jared Kushner, al centro di diversi scandali della politica americana, si prepara a presentare il suo “accordo del secolo” per la pace in Medio Oriente

NEW YORK—I primi di aprile, un’addetta dell’ufficio della sicurezza del personale della Casa Bianca ha confermato voci di corridoio che circolavano da tempo: alcuni alti funzionari dell’amministrazione Trump avrebbero «scavalcato» le regolari procedure di sicurezza per concedere ad almeno 25 dipendenti della Casa Bianca i security clearance, ovvero i nulla osta che permettono ai lavoratori di accedere a informazioni riservate. Uno dei venticinque pare essere Jared Kushner, senior adviser nonché genero del presidente degli Stati Uniti Donald Trump.

Solo due mesi fa, una giornalista dell’emittente nazionale ABC aveva chiesto alla figlia di Trump, Ivanka, se a lei e suo marito fosse stato riservato un trattamento speciale nella concessione del nulla osta. Ivanka non aveva esitato: senza neanche aspettare che la giornalista finisse di formulare la domanda, aveva scosso rigorosamente la testa. «Assolutamente no» aveva dichiarato. «Il presidente non è stato coinvolto in nessun modo».

Ora, le nuove rivelazioni sembrano smentire Ivanka Trump. Gli addetti alla sicurezza della Casa Bianca avrebbero negato il nulla osta ai venticinque funzionari che l’avevano richiesto. Tra le ragioni: influenze straniere, conflitti d’interessi, condotta personale, problemi finanziari, uso di droghe e condotta criminale. Ma in seguito all’intervento di alti funzionari, l’autorità dell’ufficio sarebbe stata scavalcata per concedere ai richiedenti l’ambíto permesso. Trump stesso avrebbe «ordinato» al suo capo di gabinetto di concedere a Kushner uno dei nulla osta di grado più alto, quello per accedere alle informazioni top secret, nonostante il dissenso degli esperti di sicurezza.

Chi è Jared Kushner

La notizia della nomina di Jared Kushner a senior adviser risale ai primi di gennaio 2017, un paio di settimane prima dell’inaugurazione della presidenza di Donald Trump. Pochi mesi dopo, è stato il turno di Ivanka, nominata assistente del padre. I critici hanno reagito alla notizia storcendo il naso a quello che sembra essere un evidente caso di nepotismo. Qualcuno si è addirittura chiesto se trasformare la Casa Bianca in un’azienda di famiglia fosse legale, domanda alla quale la rivista online Quartz ha risposto positivamente. In fin dei conti, persino il New York Times ha definito la presenza di Kushner «stabile e stabilizzante» in una Casa Bianca costantemente soggetta a transizioni caotiche tra dimissioni (vedi: Sean Spicer, Nikki Haley), licenziamenti (vedi: Rex Tillerson, James Comey) e drammi degni di un reality show televisivo (mi riferisco ovviamente ad Omarosa Manigault). Infastidisce molti, però, che Ivanka e Jared abbiano ottenuto le rispettive mansioni senza avere alcuna esperienza politica.

Kushner, laureato a Harvard, proviene da una famiglia di milionari impegnati nel settore immobiliare. Ha incontrato Ivanka Trump ad un pranzo di lavoro nel 2007 e i due si sono sposati due anni dopo, in seguito alla conversione di Ivanka all’ebraismo su volontà di Kushner, appartenente ad una comunità ebraica ortodossa modern. Nel corso della campagna elettorale del suocero, si è costruito un ruolo di consulente, una posizione da «suggeritore» dietro le quinte. Silenzioso, raramente parla in pubblico o in televisione. L’estrema destra americana lo accusa di essere un «globalist», un epiteto (a detta di molti antisemita) utilizzato anche dal famigerato Steve Bannon. I liberali, invece, lo accusano di essere rimasto in silenzio di fronte a gravi ingiustizie sociali, come le immagini dei bimbi di migranti rinchiusi in vere e proprie gabbie, separati dai genitori, nei centri di raccolta nel Texas.

Nonostante la sua facciata silenziosa, il cognome «Kushner» compare ben 265 volte nella versione redatta del Mueller Report, l’indagine sulla presunta collusione tra la campagna elettorale di Trump e la Russia; nel rapporto si parla infatti dettagliatamente dei suoi contatti con la Russia prima e dopo le elezioni.

L’amicizia col principe saudita

La politica estera pare essere uno dei maggiori interessi di Kushner, coinvolto in particolar modo nelle politiche riguardanti il Medio Oriente. Fin dai suoi primi giorni nella Casa Bianca, Trump ha reso chiaro che il genero sarebbe stato incaricato di gestire la pianificazione di un possibile processo di pace tra Israele e i palestinesi. Trump l’ha definito il deal of the century, l’accordo del secolo; un accordo che però Kushner sta tardando a discutere con le parti in causa. Ora che la campagna elettorale israeliana è terminata, ci si aspetta che i primi dettagli dell’accordo trapelino nei prossimi mesi.

Considerata l’amicizia sbocciata tra Kushner e il principe saudita Mohammed bin Salman, non sorprenderebbe se ai negoziati prendesse parte anche l’Arabia Saudita, un alleato degli USA che col supporto di Trump ha guadagnato un ruolo decisamente importante nello scacchiere mediorientale.

Mohamad Bazzi, un giornalista americano esperto di Arabia Saudita, sostiene che l’amicizia tra Kushner e il principe saudita sia «al centro del rapporto tra gli USA e l’Arabia Saudita oggi, ed è uno dei motivi per cui Trump ha tentato di proteggere il principe dalle accuse di assassinio del giornalista saudita Jamal Khashoggi». In un articolo per il Guardian, Bazzi spiega che l’amministrazione Trump avrebbe agito per fornire al governo saudita tecnologie per costruire delle centrali nucleari. In cambio dell’appoggio del regime saudita, Trump sarebbe disposto a vendere armi e siglare altri accordi economici che potrebbero mettere in pericolo la stabilità della zona. Impossibile inoltre non sottolineare il ruolo dell’Iran, nemesi dell’Arabia Saudita, che Trump è impegnato a contrastare dall’inizio del suo mandato.

Il “family affair” creato da Trump presso la Casa Bianca, insomma, spaventa gli addetti alla sicurezza degli Stati Uniti. E per quanto Kushner sia stato attento a rimanere silenzioso e lontano dai riflettori, gli occhi di Washington ora sono puntati su di lui.

Simone Somekh
Collaboratore

Vive a New York, dove lavora come giornalista e scrittore. Insegna al Touro College di Manhattan. Ha collaborato con Associated Press, Tablet Magazine e Forward. Con il suo romanzo Grandangolo (ed. Giuntina), tradotto in francese, tedesco e in prossima uscita in russo, ha vinto il Premio Viareggio Opera Prima. 

@simonesomekh


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.