Un ragionamento sul genere horror nel mondo ebraico e nelle sue declinazioni israeliane
È vero: nonostante il rammarico dei suoi indefessi ammiratori, l’orrore rimane ad oggi un genere letterario e cinematografico bistrattato e, per questo, poco esplorato dall’accademia. Relegato spesso alla classificazione di serie B, l’horror tende a renderci sospetti dei suoi spettatori: innocente guilty pleasure o perversione poco engagé quella di chi gode nel farsi spaventare da litri di sangue finto o da mascherate sovrannaturali? Ma niente giudizi morali, oggi, su questa pagina. Solo, un avvertimento: aprite i link a discrezione del vostro buon senso e, soprattutto, buon gusto!
L’orrore ebraico
Se l’orrore non è semplicemente un fenomeno culturale circoscritto – come, ad esempio, quello della narrativa gotica iniziata da Edgard Allan Poe – ma una vera e propria categoria estetica, applicabile e individuabile potenzialmente in qualunque cultura, non possiamo non chiederci: esiste un orrore ebraico? A rispondere “sì” ci ha pensato recentemente Ed Simon con un contributo su Tablet Magazine. La definizione di orrore ebraico data da Simon è alquanto sofisticata: ciò che distingue filosoficamente l’orrore ebraico dalle altre fenomenologie horror è la questione implicita e soverchiante del monoteismo. Ovvero, in una realtà concepita in modo tale per cui tutto va ricondotto a un unico Dio, l’emozione che scaturirà dal maligno e dal misterioso sarà quella di un terrore raddoppiato, in quanto la razionalizzazione dell’inspiegabile (in senso etico o fisico) non concede la – relativamente – rassicurante esistenza di un Altro. Il male e il prodigio, cioè, esistono sotto lo stesso cielo e per mano dello stesso Creatore di chi ad essi assiste o anche solo li immagina.
Immaginare vs. assistere, già. Perché l’esperienza storica del popolo ebraico è piena di orrore reale, dai pogrom dei cosacchi ai campi di concentramento. Ha senso allora, in quest’ottica, fantasticare sul tremendo? L’animo umano, a quanto pare, di avere paura non ne ha mai abbastanza. Tuttavia, la vicinanza con l’avvento del male assoluto incarnato dal nazismo dà ovviamente conto del perché i motivi ebraici nella fiction d’orrore (sia cinematografica sia letteraria) siano sporadici, come anche del ritardo nel concepimento di un genere horror nella cultura dello stato d’Israele.
Esempi storici
La storia classica del cinema horror conta, in effetti, pochi riferimenti a tematiche prettamente ebraiche. Il motivo del golem – l’umanoide di argilla portato in vita dalla formula אמת, “verità”, scritta in fronte – venne esplorato già agli albori del cinema con una trilogia, di cui oggi rimane solo il terzo capitolo, il prequel Der Golem, wie er in die Welt kam (1920), del regista e attore tedesco Paul Wegener. Più recentemente, nel 2012, il film The Possession affrontò il tema della possessione demoniaca da una prospettiva ebraica, nella quale il rito di esorcismo dal dibbuk viene officiato non dal tipico prete cattolico ma da un rabbino. Sempre in tema di possessioni, una menzione speciale va di diritto a una pellicola italiana del 1963, diretta da Brunello Rondi, Il demonio. Complice l’interpretazione dell’attrice di origine israeliana Dahlia Lahvi, nella scena madre in cui la sventurata protagonista della vicenda, Purificata detta Purìf, viene portata in chiesa per essere esorcizzata dal prete del paese, assistiamo a una manifestazione demoniaca in cui l’agente infero parla, per bocca della posseduta, in perfetto ebraico. Ulteriore nota di merito a questo misconosciuto reperto della cinematografia orrorifica e non solo: di nuovo grazie alla formazione di danzatrice della Lahvi, ci troviamo di fronte a quella che è probabilmente la prima “spider walk” della storia del cinema, otto anni prima del romanzo L’esorcista di William Peter Blatty e dieci prima dell’iconica scena della riduzione cinematografica del 1973.
In Israele
E in Israele? Qual è la situazione del cinema israeliano, per altri versi così incensato nei vari festival d’essai? L’occasione della succitata riflessione di Ed Simon è, per l’appunto, la prossima uscita di un film dal titolo The Golem. Opera dei fratelli Doron e Yoav Paz (sui quali torneremo tra poco), il film non sembra essere una banale riproposizione di un tema già caro, abbiamo visto, alla cinematografia. Ciò che balza immediatamente agli occhi è che al centro della storia, ambientata in uno shtetl del XVI secolo, abbiamo non un astruso rabbi qabbalista ma una giovane donna, Hannah. L’escamotage prepara dunque il terreno per un’inaspettata associazione archetipica: creazione (malefica?) e maternità, nel solco di classici quali The Omen e Rosemary’s Baby.
I fratelli Paz erano già noti al pubblico specializzato per Jeruzalem del 2016. Il film, girato in soggettiva dal punto di vista della protagonista munita di google-glasses, introduce nel cinema israeliano il tema degli zombie. La trama si svolge nella città antica di Gerusalemme e vede in scena le peripezie vacanziere di due giovani turiste ebree americane. Peripezie che ben presto si trasformeranno in avventura apocalittica: le due si trovano infatti nella sfortunata coincidenza, nel giorno di Kippur, dell’apertura di un portale dell’inferno dal quale fuoriesce un’orda di demoni alati, o forse meglio di anime incarnate, pronte a contagiare con violenti attacchi – come nella migliore tradizione degli zombie movies – l’ignara popolazione. L’insolita rappresentazione del morto vivente munito di ali richiama forse, nell’inconscio collettivo, la concezione ebraica per cui, nel processo del gilgul (ovvero della metempsicosi o reincarnazione), le anime dannate che non trovavano un corpo umano, animale o inanimato in cui dimorare s’intrufolavano nella carne di vittime innocenti, dando luogo al corrispondente delle possessioni demoniache così diffuse nell’Europa cristiana della prima età moderna.
Il contagio – un tema che esercita una naturale attrazione per chi ha culturalmente a che fare con un’ingombrante teologia del puro e dell’impuro – è il convitato di pietra anche nei due film che hanno aperto la pista al cinema horror israeliano: Rabies (2010) e Big Bad Wolves (2014). Entrambi opera della coppia registica Aharon Keshales e Navot Papushado, i due lungometraggi non appartengono alla tipologia dell’orrore sovrannaturale, come i casi precedenti. Questa volta, il contagio che indirettamente viene raccontato è quello assolutamente umano della violenza. Violenza che viene perpetrata insensatamente, à la Tarantino, in un vortice al culmine del quale le differenze tra vittima e carnefice sfumano nel rosso intenso del sangue versato.
Umano o sovrannaturale, il male esercita un indubbio e universale fascino. Possiamo dire che oggi sia ancora vivo e vegeto il cosiddetto tremendum fascinans che il filosofo tedesco Rudolf Otto vedeva come uno degli aspetti salienti del sacro, e dunque della religione. Eh già, a quanto pare, nell’epoca della secolarizzazione e dell’emancipazione dal teologico, l’attrazione per l’arcano, l’incomprensibile, lo spaventoso sembra essere stata compensata dal sorgere di una narrativa ricreativa sull’orrore. Umano o sovrannaturale, questo discorso emotivamente destabilizzante ricopre la funzione di polo magnetico per quel sentimento incancellabile che è la paura. Paura che, come possiamo vedere, non è mancata di affacciarsi anche nei fotogrammi del cinema israeliano, proponendoci un viaggio oscuro e sotterraneo tra i fantasmi del mondo ebraico. Per conoscere meglio, forse, anche il lato oscuro e sotterraneo di noi stessi.
Ilaria Briata è dottore di ricerca in Lingua e cultura ebraica all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha pubblicato con Paideia Editrice Due trattati rabbinici di galateo. Derek Eres Rabbah e Derek Eres Zuta. Ha collaborato con il progetto E.S.THE.R dell’Università di Verona sul teatro degli ebrei sefarditi in Italia. Clericus vagans, non smette di setacciare l’Europa e il Mediterraneo alla ricerca di cose bizzarre e dimenticate, ebraiche e non, ma soprattutto ebraiche.