Spunti dalla conferenza al Teatro Franco Parenti del 15 maggio tenuta dal principale esperto di demografia ebraica
Identità, sociologia, futuro delle Comunità ebraiche: di questo e molto più ha parlato mercoledì 15 maggio Sergio Della Pergola – Professore di demografia e studi sulla popolazione presso l’Università Ebraica di Gerusalemme e considerato il massimo esperto sulle questioni demografiche del mondo ebraico – alla serata organizzata al Teatro Franco Parenti di Milano da Milano Ebraica, una delle due liste in corsa per l’imminente rinnovo del Consiglio della Comunità.
Tanti temi, domande, considerazioni e, naturalmente, tanti dati. Bando alle percezioni generate dal sentito dire, dai mezzi di comunicazione, dalle reazioni di pancia: Della Pergola illustra con chiarezza numeri, grafici, studi, nelle diapositive che scorrono alle sue spalle.
Una fase di transizione storica
Le previsioni di trent’anni fa davano per certa la fine delle grandi ideologie. Si sbagliavano: viviamo in un momento caratterizzato da forte ideologizzazione e aumento di conflitti, compresi quelli interni al proprio gruppo di appartenenza. Il popolo ebraico si trova in questa fase di transizione storica. Anche al suo interno, differenze e divergenze si sono acuite, ma i grandi temi sono comuni per tutti. Uno di questi, il ritorno in forze dell’antisemitismo. “La mia generazione”, spiega Della Pergola (che è nato nel 1942), “non avrebbe mai immaginato che saremmo dovuti tornare ad affrontare pregiudizi vecchi e nuovi”.
L’antisemitismo si esprime in diversi elementi, che vanno disgregati per poterli osservare meglio: dal razzismo biologico (ebrei come diversi fisicamente), a quello sociale (ebrei come corpo estraneo della società, che non vuole integrarsi), fino alla negazione o minimizzazione della Shoah e delegittimizzazione dello Stato di Israele, corpo estraneo nella comunità internazionale. I dati mostrano l’esistenza di uno scarto tra la percezione e l’esperienza dell’antisemitismo, ma ciò non toglie che siano preoccupanti: secondo l’indagine FRA (European Union Agency for Fundamental Rights) del 2018, un terzo degli ebrei in Europa ha vissuto almeno un episodio.
Storia, geografia, demografia: i numeri dell’identità
Le domande davvero importanti sono sempre le più semplici: quanti sono gli ebrei? Cosa ci dicono i dati sulla distribuzione delle comunità ebraiche nel mondo? Nel Medioevo, gli ebrei sono un piccolo popolo, di circa un milione di persone. La crescita demografica comincia a partire dal 1600, particolarmente in Europa Orientale, con uno spostamento del “centro di gravità” dall’universo sefardita a quello ashkenazita: incredibile pensare come ciò che diamo per scontato sia frutto di un processo relativamente recente. 75 anni dopo la distruzione causata dalla Shoah, la popolazione ebraica nel mondo è in aumento (+3 milioni dal 1945), ma è ancora lontana dal riprendersi. Le previsioni mostrano che la popolazione diasporica – più velocemente in Europa e più lentamente in America, ma comunque in modo inesorabile – è destinata al declino, per via del basso tasso di natalità. In Europa, c’è un solo Paese in cui la popolazione ebraica giovane è superiore a quella anziana: la Polonia. E non è un dato di cui rallegrarsi, poiché è causato dalla Shoah e non dall’alto tasso di nascite.
Il mondo ebraico conta oggi 15 milioni di anime, tra Israele e Diaspora. La parte che vive in Israele si trova a convivere con una dualità: essere parte di un popolo, insieme agli ebrei della Diaspora, e al contempo di uno Stato, insieme a 6,5 milioni di non ebrei (2 milioni di arabi e altri non ebrei cittadini d’Israele, più i 4,5 milioni di palestinesi che abitano i Territori contesi). Particolarmente interessante è la complessità di situazioni che crea il contrasto tra la Legge del Ritorno, che stabilisce chi può essere cittadino israeliano (anche non ebrei discendenti di ebrei) e la Halakhah, che stabilisce chi è ebreo. Così abbiamo cittadini dello Stato ebraico a tutti gli effetti (circa 450mila persone) che però devono, ad esempio, andare all’estero per sposarsi (in Israele non c’è il matrimonio civile) e i cui figli, pur crescendo socialmente e culturalmente come ebrei, halachicamente non lo sono. A oggi, circa 100mila degli israeliani “altri” sono stati convertiti dal Rabbinato Israeliano.
La gestione delle “situazioni fluide” è materia di dibattito aperto per tutto l’ebraismo: se ne è parlato, racconta Della Pergola, all’ultima Assemblea rabbinica dei rabbini d’Europa, a cui è stato invitato come esperto. Un’esperienza, assicura, che smentisce il pregiudizio di un ebraismo monocratico e non al passo sui tempi: opinioni diverse si sono confrontate su temi quali la bioetica, la medicina, le conversioni dei bambini.
Dove andiamo? Sguardo su Milano
L’antisemitismo causa la migrazione verso Israele? Anche, ma la correlazione tra i due punti non è la più importante per capire il fenomeno. A spingere le aliyot, le migrazioni verso Israele, è il fattore economico: chi si trasferisce nello Stato ebraico lo fa cercando una qualità di vita migliore di quella che lascia. Oltre a Israele, i dati mostrano un trend costante di migrazione verso i Paesi sviluppati, soprattutto il mondo anglosassone.
Avviciniamo la lente d’ingrandimento, dal locale al globale: Milano. Della Pergola spiega che il calo degli iscritti alla Comunità – da diecimila a cinquemila circa – è particolarmente preoccupante perché le cose non sarebbero dovute andare così. Milano ha beneficiato di una forte immigrazione, dai Paesi arabi, dalla Turchia e dall’Iran: gli ebrei della città dovrebbero essere almeno il doppio! Al di là dei problemi interni, che possono provocare uno scarto tra iscritti alla Comunità e residenti a Milano, il dato comunica qualcosa di più grave a livello esterno: l’Italia – e Milano, che si vanta di esserne il motore – non è stata in grado di creare opportunità valide per queste ondate migratorie che portavano con sé alti tassi di istruzione e professionalità.
Europa e futuro
Ebrei, cartina di tornasole della civiltà. Tradizionalmente, spiega Della Pergola, le comunità ebraiche hanno sempre vissuto meglio in contesti di pluralismo, tolleranza, diversità. Meglio durante l’Impero Romano politeista, ad esempio, che sotto il Cristianesimo. O meglio in molti Stati transnazionali che in molti Stati-nazione. C’è dunque un legame dunque tra rinfocolamento dell’antisemitismo e crescita dei nazionalismi particolaristici, che ora va di moda chiamare “sovranismi”? E con il declino delle comunità europee?
E il declino si può contrastare? Sì, dice Della Pergola, la soluzione “populista”, ma con il suo bel fondo di verità, è a portata di mano: fare più figli. Ma non nel senso di adesione a un modello di famiglia tradizionale bensì, come succede in Israele – che ha di contrasto il tasso di natalità più alto del mondo sviluppato – perché c’è ottimismo, si crede nel futuro. Importante, aggiunge Della Pergola, anche fare rete tra diverse comunità in Italia e fuori, non chiudersi nei propri campanilismi e non abbandonarsi nelle spire della self-fulfilling prophecy: siccome è previsto che le cose vadano male, mi comporto di conseguenza.
Tra i problemi che l’ebraismo oggi affronta, non ci sono solo le questioni identitarie, l’antisemitismo, l’assimilazione, ma anche l’alto livello di conflitto interno. Bisogna riattingere alla tradizione ebraica in cui ogni opinione, anche quella minoritaria, è considerata legittima. Le sfide si affrontano aprendosi o chiudendosi al mondo? È come una partita di calcio, dice Della Pergola, c’è chi gioca in difesa e chi in attacco. Ma il punto da non perdere mai di vista, aggiunge, è che tutti giocano in buona fede.