Di poesia, femminilità e cultura yddish. Intervista a Roberto Francavilla, traduttore della scrittrice brasiliana (ma scampata a un pogrom in Ucraina).
Il suo mondo si srotola come un labirinto, senza poter mai distenderlo veramente e eliminare tutte le pieghe di quel tessuto ricco e così semplice al contempo. Clarice Lispector è un gigante della letteratura brasiliana, lei che viene dall’Ucraina. Clarice Lispector è una poetessa meravigliosa, lei che scrive in prosa. Clarice Lispector è una grande interprete della propria psiche, lei che si esprime in terza persona.
Sicuramente è esponente di un genere leterario unico, insieme alla lingua che usa, il portoghese brasiliano, certo, la lingua del Paese che sentiva casa, ma anche questo pieno di rimandi ad altre lingue, alle lingue che compongono il Brasile reale. La sua storia comincia in Ucraina, nello shtetl di Chechelnyk, da cui scappa con la famiglia scampando a un terribile Pogrom, per raggiungere il Brasile, dove la madre ha dei parenti, nel 1922. Vivono nel quartiere Boa Vista a Recife, Pernambuco, dove Clarice frequenta la scuola yddish brasiliana dove studia anche l’ebraico. Quindi frequenta il ginnasio e poi la facoltà di Giurisprudenza, al termine della quale pubblica il suo primo libro, Vicino al cuore selvaggio. Uno shock. Viene paragonata a Virginia Woolf e James Joyce. Da quel momento, continua a scrivere. Bella, bellissima anzi, porta sul volto i segni della sua sofferenza (fu morsa da un serprente prima e da un cane dopo). Poco prima di morire rilascia l’unica intervista di tutta la vita alla TV brasiliana. Siamo nel 1977, lei è appena morta di cancro e alla Tv si assiste a una performance straordinaria di un’artista caleidoscopica. Che nell’ultima parte suona così:
Intervistatore: – Ma lei non rinasce e si rinnova ad ogni nuovo lavoro?
Clarice: (Sospiro profondo.) – Ecco, io ora sono morta… Vediamo se resuscito di nuovo. Per il momento sono morta… sto parlando dalla mia tomba…
Di Clarice Lispector abbiamo parlato con Roberto Francavilla, docente di letteratura porteghese all’Università di Genova, che ha tradotto Clarice Lispector (gli ultimi due: Acqua viva , uscito un paio di anni fa per Adelphi e una raccolta di racconti è in arrivo per Feltrinelli). Il 5 giugno sarà a Milano a parlarne in un incontro – aperitivo.
leggi anche: Una nuova traduzione di Al Ghazali in ebraico
Cosa significa tradurre Clarice Lispector? O meglio, come si fa?
Tradurre Lispector è un problema enorme. Non solo perché è una scrittrice gigantesca che presenta un suo universo frantumato con una femmnilità fortissima in cui si mette in discussione, ma anche per problemi più specifici. Il suo portoghese ha incastri esogeni particolari: è una lingua che evade dalla sua origine prendendo tutte le matrici dell’immigrazione brasiliana, ebraico incluso. E poi c’è la sua storia personale. Arriva dall’Ucraina molto piccola ma già con un universo linguistico assestato. Lo yddish è la lingua del trauma: lei e la famiglia scappano da un pogrom e la madre morirà qualche anno dopo a causa delle violenze subite. Clarice cambia nome quando arriva in Brasile e tutto questo finisce nel suo codice espressivo, in un processo che è stato definito di stranierizzazione della lingua.
Anche la prosa non è certo semplice, insieme ai continui salti tra la prima e la terza persona…
La sintassi è estremamente complessa e disordinata, tanto che spesso non è chiara. Ma questo è l’elemento poetico, sostenuto a volte da un continuo scambio programmatico della prima e della terza persona. Ho presentato un suo libro in un posto dove erano presenti alcuni psicanalisti che dicevano che i suoi libri si possono leggere cominciando da qualsiasi pagina. Concordo: come una raccolta di poesie. Acqua viva poi allude alla medusa (agua viva in brasiliano) e Clarice usa spesso il pronome neutro inglese it per parlare di questa creatura informe e senza sesso. Qualcosa di analogo succede anche in Soffio di vita, un libro che è quasi un sogno per la struttura frammentaria che ha. Il mio compito è riscrivere, in quanto traduttore. Mi assumo le mie responsabilità, certo, ma quasi sempre è impossibile scegliere, allora devo seguire il filo teorico. Quello della Lispector, che diceva di aver bisogno di guardare il mondo di sbieco per vederne le profondità. Ecco, io ho tradotto “di sbieco”.
E poi c’è un elemento, cui ha accennato all’inizio, che riguarda una femminilità così forte e peculiare forse non facile da penetrare completamente.
In effetti è la prima volta che mi trovo in difficoltà con autrici donne perché il suo universo femminile è davvero denso. Ma mi ha aiutato molto la sua voce. Ho in mente quell’unica intervista che ha rilasciato prima di morire alla Tv brasiliana in cui parla con voce quasi teatrale. Ma il suo tono mi ha guidato nella traduzione. Nei momenti critici ripescavo nella mente la sua voce e tutto diventava comprensibile. E poi, l’ironia. Quell’ironia tutta femminile e anche femminista (come era lei) con cui spesso descriveva gli uomini (quelli che si innamoravano di lei), rendendoli ridicoli e inetti, mi ha permesso di entrare in sintonia. L’ironia permette uno scioglimento, è un punto di incontro tra lei e il lettore-traduttore.
Quanto l’ebraicità compare nei suoi lavori?
Non è evidente nella lingua quanto nella matrice: è ciò che ha dentro. E corrisponde al trauma, cui lei fa corrispondere l’abbandono della terra e la perdita della madre, anzi della Madre in senso assoluto. Si avvicina al dio cattolico nel corso della sua vita, ma poi, quando gravemente malata, chiede che venga fatto per lei un funerale con rito ebraico. Del resto, anche rispetto al Brasile ha un doppio legame. La sua brasilianità è forte e rivendicata (fa di tutto per ottenere la cittadinanza) e ne accoglie la matrice ebraica, molto importante nella sua cultura. Un altro, ennesimo, labirinto in cui Lispector si infila. E in cui ama condurre i suoi lettori.
Roberto Francavilla parla di Clarice Lispector con l’attrice Paola Carrara che leggerà alcuni brani nell’ambito del festival Carnaval a La corte dei miracoli, Milano, il 5 giugno alle ore 18.30