Altrimenti detto: come non diventare una birra
I Quilmes, popolazione indigena dell’odierna Argentina settentrionale, edificarono una civiltà avanzata con caratteristiche religiose e culturali uniche. Le rovine centenarie di una loro città fortificata giunte fino a noi mostrano un livello di sofisticatezza con cui solo i grandi imperi dell’epoca potevano competere. Durante l’era precolombiana, i Quilmes fermarono con successo l’avanzata degli Inca. Quando arrivarono i conquistadores spagnoli, i fieri Quilmes resistettero molto più a lungo degli Inca o degli Aztechi, tanto che ci vollero 130 anni per sconfiggerli.
Quando infine gli Spagnoli nel 17° secolo li vinsero, non erano molto ben disposti. Al fine di eliminare ogni possibilità di rivolta, esiliarono l’intera popolazione Quilmes in un insediamento appositamente costruito vicino alla nuova città di Buenos Aires. Oggi è possibile visitare la cittadina di Quilmes. È uno dei sobborghi più popolosi della capitale argentina, famoso per la rinomata marca di birra Cerveza Quilmes (che, tra parentesi, è kasher).
Ma del popolo Quilmes non è rimasta traccia alcuna. All’inizio del 1800, Quilmes era già una città fantasma. Il fiero e agguerrito popolo Quilmes era semplicemente scomparso. È certo che non furono uccisi, né morirono di malattia o fame; semplicemente si dispersero all’interno della popolazione circostante.
Come può essere? Come può un popolo che per centinaia d’anni ha combattuto due imperi evaporare nel nulla?
La risposta è semplice e tragica. L’intera cultura dei Quilmes era inestricabilmente legata alla loro terra ancestrale. Quando i Quilmes vennero sradicati dalle pendici occidentali delle Ande, la loro identità si svuotò ed essi cessarono di esistere come gruppo distinto.
La tattica crudele di esiliare un popolo al fine di diluirne l’identità non è nuova per noi ebrei. 2300 anni prima che i Quilmes fossero deportati a Buenos Aires, Nabucodonosor II distrusse Gerusalemme e mandò la popolazione della Giudea in esilio a Babilonia. Il nostro primo esilio non durò a lungo: Ciro il Grande ci permise di tornare e di ricostruire il Tempio. Qualche secolo più tardi, dopo avere mal gestito la nostra indipendenza, un secondo esilio fece seguito. I Romani distrussero nuovamente il Tempio e questa volta l’esilio non fu breve.
Ma perché i Quilmes sono scomparsi e noi no? Perché noi non siamo diventati nulla più di una marca di birra?
Si potrebbe dire che l’ebraismo non è incentrato sulla terra, ma tale argomentazione non afferra l’importanza che il Tempio aveva nella vita ebraica. Molti ebrei credevano che fosse la vera dimora di Dio; i sacrifici degli animali segnavano l’inizio e la fine di ogni giorno; e tre volte all’anno gli ebrei dovevano recarsi a Gerusalemme in pellegrinaggio. Molte leggi della Torah sono legate alla terra e molte mitzvot sono valide solo in Terra d’Israele. Quale fu dunque l’ingrediente segreto? Come abbiamo fatto a sopravvivere senza l’elemento centrale della nostra religione?
La festività di Shavuot offre degli spunti.
La maggior parte delle feste ebraiche hanno una valenza duplice: da una parte, sono legate al ciclo dell’agricoltura e dall’altra celebrano un evento di rilevanza storica e spirituale. Pesach commemora l’Esodo e al contempo celebra la raccolta dell’orzo in primavera. Sukkot commemora il nostro soggiorno nel deserto, ma celebra anche la raccolta degli ultimi frutti e l’inizio delle piogge.
Shavuot è, verosimilmente, la festività più legata alla terra del nostro calendario. Celebriamo la mietitura del grano; portiamo i bikkurim (i primi frutti) in offerta al Tempio e, più generalmente, celebriamo il nostro attaccamento alla terra di “latte e miele”. Sì, Shavuot è anche Zman Matan Toratenu, la celebrazione del dono della Torah sul Monte Sinai, ma tale associazione non compare nella Bibbia. In effetti, il primo riferimento a questa definizione compare nel nono secolo. Consultando le fonti, il nesso tra Shavuot e il Dono della Torah sembra alquanto debole, quasi un’aggiunta a posteriori. Tanto per cominciare, il momento esatto del dono della Torah è dibattuto nel Talmud; non meno importanti, sono le domande su che cosa fu donato. L’intera Torah o solo i Dieci Comandamenti? Non c’è unanimità tra i rabbini su questi punti. E pensandoci bene, perché la Torah, che legifera così dettagliatamente sui bikkurim e sugli altri aspetti agricoli di Shavuot, non prescrive alcun rituale specifico per celebrare questo evento epocale?
Gli studiosi ritengono appunto che il nesso tra Shavuot e Matan Torah [il Dono della Torah] fu sviluppato durante l’esilio babilonese e modificò la natura puramente agricola della festività. Abbiamo alcune prove del fatto che i due significati della festa fossero già stati accolti all’epoca del Secondo Tempio e l’associazione si affermò con forza dopo la distruzione del Tempio. Non è difficile capire perché.
Shavuot è l’esempio più lampante di un processo storico e spirituale attraverso il quale gli ebrei riuscirono a dare un significato nuovo alle loro tradizioni incentrate sulla terra, dopo che l’avevano perduta.
Laddove la festività aveva sia una componente storica, sia una agricola, come Pesach, i rabbini poterono con flessibilità evidenziare il significato storico e minimizzare l’altro. Nel caso di Shavuot, in cui l’elemento storico era virtualmente assente, ne aggiunsero uno. Ciò consentì agli ebrei di mantenere l’importanza della festa malgrado la perdita della terra, nonché, paradossalmente, a mantenere vivo il legame con la terra, persino dall’esilio.
Ciò non rende la nostra attuale celebrazione di Shavuot meno “autentica” o meno fedele all’originale. Semmai il contrario. Dimostra che l’Ebraismo ebbe la flessibilità di adattarsi ai cambiamenti drammatici della sua storia. Il segreto della sopravvivenza dell’Ebraismo è precisamente questa adattabilità, la possibilità di reinventarsi di fronte a realtà che cambiano. Sia chiaro, adattabilità non significa demolire il passato e tirar fuori un assortimento interamente nuovo di contenuti e pratiche. Sarebbe facile, ma reciderebbe ogni parvenza di continuità storica. Adattabilità ebraica vuol dire entrare in una danza delicata tra il vecchio e il nuovo, in una prudente dialettica tra cambiamento e stabilità, in un rinnovamento che sia radicato in valori fondanti.
Avendo dovuto adattarsi per due volte alla perdita del Tempio, questo particolare tipo di danza col cambiamento si è cristallizzato nel DNA culturale ebraico. Nel corso dei secoli, gli ebrei sono riusciti a reinterpretare le nostre tradizioni alla luce delle nuove realtà affrontate – dalla reinterpretazione dell’Ebraismo di Maimonide attraverso la filosofia aristoteliana, a Theodor Herzl che definì l’ebraicità con la categoria moderna del nazionalismo.
Questa capacità di adattarsi è al contempo una benedizione e una responsabilità. Riversa sulle spalle di ogni generazione il compito titanico di reinterpretare l’Ebraismo in modo da mantenerlo fresco e attuale. Tale compito ci richiede di distillare i valori da preservare e di infondere nuovi significati negli antichi rituali. Richiede sia apertura verso il mondo, sia rispetto per la tradizione. Necessita di profonda conoscenza per la nostra tradizione e di sintonia con i cambiamenti del nostro ambiente.
Il mondo ebraico in cui viviamo oggi è il risultato di ripetuti adattamenti a un mondo in evoluzione. Tutte le ideologie ebraiche oggi esistenti, dall’Ortodossia al movimento Reform, dal Sionismo ai Haredim, dal movimento Conservative a quello umanista sono, per certi versi, creazioni del 19° secolo che cercarono di mantenere la rilevanza dell’ebraismo in mezzo ai cambiamenti della modernità. Il nostro orizzonte ideologico differisce in larga misura da quello che esisteva duecento anni fa, perché il genio dei nostri avi aveva creato risposte diverse alle sfide poste dalla modernità.
Ma come le generazioni passate hanno dovuto ripensare il proprio ebraismo, così dobbiamo fare noi. Il mondo di oggi è diverso dal mondo della prima modernità, così come esso era diverso dal Medioevo. Stiamo assistendo a cambiamenti epocali nella società, nella scienza, nelle relazioni e nella tecnologia. Questi cambiamenti non sono meramente incrementali: stanno ridefinendo l’essenza stessa di cosa significa essere umani: stanno cambiando le idee sulla cui base è costruita la società moderna. Il nostro è un mondo che richiede nuove risposte spirituali e nuove forme di comunità.
Così, la nostra danza col cambiamento non può fermarsi. Al contrario, abbiamo bisogno di imparare nuovi passi e adattarci a nuove musiche, suonate da strumenti finor sconosciuti.
Shavuot prova che ciò è possibile; che i cambiamenti prudenti e l’adattamento giudizioso arricchiscono e non distruggono le nostre tradizioni; che attraverso la conoscenza delle nostre fonti possiamo trovare nuovi significati. Questi adattamenti hanno reso possibile a ogni generazione di ebrei l’accesso alle sorgenti di significato e ristoro dell’Ebraismo.
È il nostro turno ora di lottare con amore tra la nostra tradizione e il mondo, di scoprire nuovi modi di esprimere e attualizzare valori senza tempo. Possiamo raccogliere la sfida – la sfida che la nostra tradizione ci ha lasciato in eredità – oppure, diversamente, possiamo diventare una lattina di birra.
Traduzione dall’originale inglese di Silvia Gambino
Andrés Spokoiny è Presidente e CEO del Jewish Funders Network, con un’esperienza di lungo corso nella leadership e trasformazione delle comunità e organizzazione ebraiche. Tra i molti incarichi ricoperti, da ricordare quello di CEO della Federazione CJA di Montreal e, precedentemente, di Direttore Regionale per l’Europa nordorientale con il JDC a Parigi. Di origini argentine, ha una formazione accademica multidisciplinare comprendente economia, scienze dell’educazione e studi rabbinici.