Piccola rassegna tematica, in due puntate, sullo stato dell’arte attuale, tra strategie geopolitiche e aneddoti di vita vissuta
Se ne parlava già da un po’, ma con di mezzo la conferenza di Manama se ne è parlato un po’ di più: i rapporti tra Israele e le monarchie del Golfo (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrain, Oman, Kuwait) si stanno scaldando a livelli che meno di dieci anni fa sarebbero stati inimmaginabili. La ragione è soprattutto strategica: contrasto all’Iran e altri interessi comuni. Dietro le quinte, c’è anche l’infaticabile lavoro di un rabbino americano: Rabbi Marc Schneier, presidente della Foundation for Ethnic Undertsanding, che dal 2008 (primo invito ricevuto dal re dell’Arabia Saudita) si dedica a migliorare le relazioni tra i due mondi.
Una delle conseguenze di questo avvicinamento è che, riguardo i Paesi del Golfo, si comincia a parlare di ebraismo e comunità ebraiche; o meglio si torna, vista la storia antichissima e fiorente, oggi completamente perduta, dell’ebraismo in questa parte di mondo.
Vediamo, in due puntate, qual è la situazione oggi e quali le storie più interessanti che la raccontano.
Bahrein, il primo minyan dopo oltre 70 anni
Il 26 giugno è stata una giornata storica per la sinagoga di Manama, unico luogo di culto in tutto il regno per la comunità del Bahrein – 34 persone, una delle più piccole al mondo. Complice la conferenza in corso, è stato possibile formare il minyan di 10 uomini per recitare la Shacharit, la preghiera del mattino. La minuscola comunità bahreinita è in buoni rapporti col governo: significativa la nomina di due donne, Houda Noono nel 2008 come ambasciatrice negli Stati Uniti (prima ebrea e terza donna a ricoprire questo ruolo) e Nancy Khedouri, imprenditrice e scrittrice, come membro del Parlamento nel 2010, nonché la partecipazione del re Hamad bin Isa Al Khalifa all’accensione dei lumi di Hannukah nel 2015. La costruzione della sinagoga data del tardo XIX secolo, epoca in cui nel Paese si stabilirono ebrei provenienti da Iraq, Iran e India; fu distrutta durante i disordini del 1947 provocati dall’annuncio del Piano di partizione delle Nazioni Unite e ricostruita nel 1990. Un edificio anonimo e difficile da individuare, al quale il giornalista israeliano Raphael Ahren, che svela i retroscena dello storico minyan su The Times of Israel, dava la “caccia” da tempo.
“Erano settimane che tentavo di organizzare una visita alla sinagoga di Manama in occasione della mia partecipazione alla conferenza, ma la comunità ebraica locale era inizialmente riluttante ad aprire le porte a giornalisti israeliani. Consapevole di quanto sia delicato vivere da ebreo in un Paese musulmano che non intrattiene relazioni ufficiali con Israele, avevo inviato diversi messaggi, attraverso diversi canali, ai leader della comunità chiedendo di visitare la sinagoga in forma privata, invano”. Finalmente, continua il racconto, si accende il semaforo verde. Appuntamento per la visita alle quattro del pomeriggio, tassista che annuisce alla richiesta della destinazione ma in realtà non sa dove andare e scarica Ahren in mezzo alla città con una temperatura di 45 gradi, due parole scambiate con i parrucchieri che lavorano nel salone proprio accanto. “Sapete cos’è questo posto?”. “Sì, è una specie di moschea, ma non vediamo mai nessuno entrarci”. Più tardi, tornato alla conferenza, l’occupazione primaria di Ahren sarà capire quanti ebrei ci sono e se il pallino che gli è preso durante la visita – malgrado il suo non essere granché osservante – si può concretizzare: aprire la sinagoga per un servizio di comunità. La fine della vicenda è già diventata storia e si può vedere nel video di I24news.
Emirati Arabi: una comunità di expat, ora ufficialmente riconosciuta
“Dalla sua costituzione nel 2008, la comunità ha avuto cura di mantenere un profilo basso. Niente sito internet, niente riferimenti sui siti ebraici di viaggio. Quasi nessuna menzione sui social media. I visitatori apprendono della sua esistenza attraverso il passaparola e l’indirizzo è rivelato solo dopo un attento esame delle credenziali”, scrive Miriam Herschlag in un articolo dello scorso anno per The Times of Israel che presenta la comunità ebraica emiratina, concentrata a Dubai: non autoctona come quella del Bahrein, ma più numerosa. Secondo l’articolo, l’atmosfera di Dubai contribuisce alla sicurezza della comunità: “Dubai, con appena l’11% dei suoi 3 milioni di abitanti avente la cittadinanza, punta a rappresentare un bastione di tolleranza. Con una popolazione di 200 nazionalità, la diversità è ufficialmente celebrata. Il tasso di criminalità è basso e, sotto le onnipresenti immagini dei reali, si vive una vita sicura. La gentilezza è un valore fondante”. Ross Kriel, emigrato dal Sudafrica a Dubai con tutta la famiglia per motivi di lavoro, conferma: “Non troverai mai un Paese con un contratto sociale più chiaro di questo. Chiunque vive qui lo capisce. Vietato offendere chi ti circonda. Non esiste scontrare le persone per strada o prenderle a male parole. La gente è scrupolosamente attenta a non causare offesa”.
Quanti sono gli ebrei negli Emirati? Difficile dirlo. Rabbi Marc Schneier ha dichiarato di aver sentito “numeri che vanno dalle 150 famiglie alle duemila, tremila persone”. Ma da ora, forse sarà più facile contarsi: dopo più di un decennio di presenza non osteggiata, ma comunque ufficiosa, a maggio il governo ha finalmente riconosciuto l’esistenza della comunità. Con un atto pubblico interessante: la pubblicazione di un libro. Con la prefazione del Ministro della Tolleranza (sì, pare esista questa figura!) Nahyan bin Mubarak al Nahyan, il libro Celebrating Tolerance: Religious Diversity in the United Arab Emirates testimonia di tutte le religioni presenti nel Paese, compresa quella ebraica. Così che la comunità, scrive Itamar Eichner su Ynet, ora osa sognare un po’ di più: una vera sinagoga, non più un’abitazione privata; e chissà, magari anche un punto di distribuzione di cibo kosher e un mikveh!
Il Qatar non ha le idee chiare, o forse sì
Se da un lato, come leggiamo su Ynet, il Qatar si starebbe avvalendo della consulenza di Rabbi Marc Shneier per ricevere nel modo più appropriato ebrei e israeliani ai Mondiali di Calcio 2022 (disponibilità di cibo kosher, e non si esclude l’apertura di una sinagoga), dall’altro l’antisemitismo istituzionale nel Paese non sembra essere in calo, come denuncia David Andrew Weinberg in un comunicato di febbraio dell’Anti Defamation League, che prende in esame in particolare testi scolastici che perpetuano il cliché antisemita dell’ebreo dominatore del mondo.
Jonathan S. Tobin, nell’articolo di Haaretz “La ragione sinistra del corteggiamento del Qatar agli ebrei” è lapidario: “Doha vuole influenzare le élites di Washington. Ma invece di puntare al Congresso o ai media, si sta concentrando smisuratamente sugli ebrei di destra e filoisraeliani”. Insomma, se questi ebrei dominano il mondo, usiamoli a nostro vantaggio.
Sull’ossessione qatariota per il fantomatico potere ebraico, e non solo, è interessantissimo leggere la testimonianza del professor Gary Wasserman, che dal 2006 al 2014 ha diretto il Dipartimento di Studi Americani presso la Georgetown University a Doha. L’esperienza è raccontata in un libro, The Doha Experiment – sottotitolo: Arab Kingdom, Catholic College, Jewish Teacher – recensito da Ron Kampeas sul Jerusalem Post. Un aneddoto tra i tanti? Lo studente che venne a riferirgli di aver sentito, durante la lezione di un altro docente, che l’11 settembre era stata una buona trovata e che era stata organizzata dal Mossad. “Gli chiesi come le due idee potessero coesistere nella testa di una sola persona. Lo studente mi guardò per un attimo, rassegnato: ecco un altro straniero ingenuo che non sa apprezzare il fatto che avere due opinioni contraddittorie contemporaneamente è perfettamente coerente con la visione politica della regione”.
La seconda parte dell’articolo verrà pubblicata domani: non mancate all’appuntamento!