Ovvero, della differenza tra un’edizione critica e una semplice ripubblicazione
Il 18 luglio 1925 Adolf Hitler pubblicava Mein Kampf. E ora l’ultima edizione, aggiornata di un apparato critico, uscita in Germania, si posizione tra i bestsellers non fiction con 85mila copie vendute. La pubblicazione di quel testo era stata vietata dal Governo tedesco, ma nel 2015 il copyright, in mano alla Bavaria, è decaduto e con lui anche il diritto da parte dello Stato di impedirne la pubblicazione.
Quella di cui si parla in questo articolo firmato Jake Romm e pubblicato su The Forward è la più recente (uscita nel 2016) e include saggi, commenti e contestualizzazioni di numerosi studiosi e accademici (per un totale di 1948 pagine – numero su cui ironizza l’articolista). E, sebbene una ripubblicazione di quel volume susciti immediatamente il timore che possa tornare a essere strumento di propaganda nazista, in realtà i dati parlano di un’altra situazione: questa edizione viene acquistata nella maggior parte dei casi da studiosi dell’antisemitismo, appassionati di politica e storia e non da neonazisti.
Ma questo, sostiene l’articolo, perché si tratta di un’opera commentata e curata dall’Istituto di Storia contemporanea. Ben diverso potrebbe essere l’impatto di una riedizione semplice, senza commenti e note storiche e senza una copertina fredda e asettica come quella adottata in questo caso: porterebbe a una pericolosa “feticizzazione” del volume.
Si vada, che so, alla Feltrinelli di largo Argentina a Roma. C’è un metro lineare di scaffale che offre diverse edizioni del Mein Kampf. Due scientifiche, con introduzione storica, le altre sono opera di case editrici neonaziste. Business is business.