Un incontro con il poeta israeliano che odiava la poesia, ma ci danzava dentro
Mishir leshir: di poesia in poesia, di canto in canto. È il titolo dello spazio dedicato alla poesia ebraica e israeliana che ho il piacere di inaugurare oggi su JOIMag. E chi meglio di Hezy Leskly, “il poeta dei poeti”, può aiutarmi a svolgere questo compito?
Avviso per chi legge: non posso essere obiettiva quando scrivo di Hezy Leskly. Cercherò quindi di porre un limite ai miei giudizi, esordendo con una considerazione poco impegnativa: Hezy Leskly è stato un grande genio della poesia israeliana. Colui che più di ogni altro ha indagato le strutture e le forme del linguaggio poetico, cercando, al tempo stesso, di eroderne minutamente le convenzioni.
Tuttavia, Hezy Leskly è stato anche molto altro. Nato a Rehovot nel 1952, Leskly era l’unico figlio di una coppia di sopravvissuti alla Shoah di origine ceca. Non affannatevi, però, a cercare nei suoi versi i temi cari agli scrittori della Seconda Generazione: sarebbe tutta fatica sprecata. Leskly, infatti, non ha avvertito il bisogno di mettere in poesia il marchio del trauma, l’enorme carico di dolore che ha segnato la sua vita e quella della sua famiglia. In realtà, la poesia di Leskly non descrive nulla, anzi, talvolta è il nulla stesso la sostanza della sua scrittura. L’io poetico forte, profondamente radicato nel “qui e adesso”, lo stesso che ha dominato la poesia israeliana per decenni, nell’opera di Leskly non esiste più. Rimane però una sterminata angoscia esistenziale, insita in ogni parola, in ogni movimento, mentre i versi si costruiscono nello spazio poetico con la grazia crudele di una danza macabra.
Ecco un altro punto importante: la danza. Dopo aver abbandonato il liceo senza terminarlo, Leskly partì per Amsterdam, dove studiò fotografia e danza. Essendo troppo tardi per lui per intraprendere una carriera da ballerino professionista, scelse la coreografia. Nella capitale olandese frequentò numerosi circoli artistici, diventando egli stesso un artista “multimediale”. Gli anni di Amsterdam furono anche quelli in cui Leskly si sentì finalmente libero di sperimentare la sua omosessualità, che in Israele non aveva ancora vissuto in modo esplicito. Di ritorno in patria nei primi anni ’80, non si nascose più e fu uno dei primi intellettuali israeliani a dichiararsi apertamente omosessuale. Analogamente al dolore, l’omosessualità pervade ogni lirica di Leskly, soprattutto nel suo tentativo di creare una poesia anticonvenzionale, altra, talvolta persino brutta e disturbante. Come amava dire una mia cara amica, la compianta poetessa Tali Latowicki, se la poesia è una casa, Leskly è il topolino che ne rosicchia le fondamenta in silenzio.
In vita, Leskly pubblicò tre raccolte di poesia. Ha-‘etzba, “Il dito”, la più sperimentale delle tre, uscì nel 1986, seguita, due anni dopo, da Hibur Ve-Hisur, “Più e meno”. La consacrazione arrivò con Ha-‘Akhbarim Ve-Lea Goldberg, “I topi e Lea Goldberg”, pubblicato nel 1992. A poco a poco si creò attorno a lui un nutrito gruppo di poeti e scrittori, l’ultimo che la poesia israeliana possa ricordare.
Il quarto libro, Sotim yekarim, “Cari pervertiti”, uscì postumo nel 1994. Leskly, infatti, morì prematuramente nello stesso anno, ucciso dall’Aids. Una terribile solitudine domina questi suoi ultimi versi. È la solitudine di un poeta destinato alla morte, il quale cerca un conforto fisico in ciò che ha nutrito la sua intera esistenza: l’arte. L’arte, però, non ha corpo né braccia. Nemmeno la poesia. Perciò Leskly “odia” la poesia. È questo il senso del breve testo che voglio presentare, intitolato Tre ragioni. In questa breve lirica l’autore ci svela altri difetti della scrittura poetica. La poesia nasce con la pretesa di dire tutto, concorre a esprimere l’indicibile, ma non lo fa davvero. La poesia scaturisce dalla presunzione di esprimere completezza e perfezione, eppure non ci riesce appieno. Anche la banale conformità tra titolo e contenuto può essere messa in discussione dal poeta, il quale per Leskly è innanzitutto un sublime sabotatore di se stesso. Allora, ci domandiamo, perché scrivere, se la nostra opera è destinata comunque al fallimento? La risposta è una ed è semplice: perché non possiamo farne a meno.
Tre ragioni
Io odio la poesia
e ci sono per questo
tre ragioni.
La prima: non posso poggiare il capo sulle spalle della poesia.
La seconda: la poesia non può poggiare il capo sulla mia spalla.
La terza: la poesia non ha capo né spalle.
E c’è anche una quarta ragione.
STORIA DA RICORDARE
A quel Fascismo
S’ispirò il Nazismo
Rapida ascesa
Muta la Chiesa
Il braccio tatuato
L’uomo umiliato
Sul bianco, un neo.
Piange l’Ebreo
Arde la brace
Grande la strage
Grigio è il suo fumo
Acre il profumo
Fra quegli orrori
Pochi obiettori
Soli a far scuola
I Triangoli Viola
Di quell’orrore
Rimane l’odore
Di questa storia
Rimanga memoria!
Vitaliano Aramini Vagnini (27 gennaio 2021)
(LA SENTINELLA) כמה נשאר הלילה?”” Isaia 21:11-12)
Chi disprezzò ciò che era divino,
Sia sull’avo come pure sul figlio,
ebbe sempre nel suo cammino
disgrazia e pianto sul suo giaciglio
Così sarà per chi sta disprezzando
Il giusto Regno del grande Sovrano
E nel suo orgoglio ancor vive sperando
Nel triste futuro del dominio umano
La notte è giunta sulla nazione,
La lunga notte col suo silenzio.
È la triste notte dell’oppressione
Amara più dell’assenzio
Buia è la notte, fosco il futuro
Non s’ode il canto, non s’ode il rito
Presagio di morte nel cielo più scuro
L’uomo è smarrito
E sulle mura vede un guardiano,
È la sentinella vigile e attenta
Che come l’aquila guarda lontano,
Ma sembra sgomenta!
Con voce tremula io gli domando:
“Quanto resta alla notte? Vedi la luce?
Quando verrà? Si, dimmi quando?
E nel silenzio s’ode la voce:
“Viene il mattino e anche la notte…”
Speranza alcuna dentro quel suono
Quelle catene non saranno rotte
Seguirà un altro dominio umano!
“Oh sì, la notte sta per finire,
Ma il prossimo giorno durerà poco
Il vostro stato nel suo fluire
Resterà immoto”
“Or non t’inganni il liberatore
Il suo “gran giorno” non sarà virtù,
Il suo intervento è solo un bagliore
Per perpetuare la tua schiavitù.”
Niente di buono per l’Edomita*
Dopo l’Assiro verrà Babele
La gente rea è stata avvertita
In bocca gli resta l’amaro del fiele.
Vitaliano Aramini Vagnini