Hebraica
Tisha B’Av, la storia e le preghiere

Perché e come si ricorda la distruzione del primo e del secondo tempio?

Quando Tito entrò nel santuario del Secondo Tempio di Gerusalemme nel 70 a.C., si narra che lo trovò di gran lunga superiore a ciò che aveva sentito a riguardo. Lo racconta lo storico Flavio Giuseppe, un sacerdote ebreo vissuto durante il primo secolo d.C., nel suo libro La guerra giudaica.

Le fiamme, continua Flavio Giuseppe, stavano consumando le stanze adiacenti, ma non avevano ancora raggiunto il santuario. Tito ordinò ai suoi soldati di estinguere le fiamme, nel tentativo di salvare la parte interna del Tempio. Ma il comandante romano non riuscì a frenare i soldati, in preda alla furia; uno di essi «gettò nell’oscurità un tizzo sopra i cardini della porta, e all’improvviso balenò del fuoco all’interno… E così, contro il volere di Cesare, il Tempio fu distrutto dalle fiamme».

Rientrato a Roma, Tito fu onorato con la tradizionale cerimonia del trionfo. Il bottino della sua conquista contribuì alla costruzione del Colosseo, come ha rivelato lo studio di una famosa epigrafe ritrovata all’ultimo piano dell’anfiteatro. Alcuni dei relitti trasportati da Gerusalemme, come l’enorme Menorah d’oro, furono esposti durante le celebrazioni.

Flavio Giuseppe scrisse la sua opera qualche anno più tardi, a Roma. Il suo vero nome era Yosef ben Matityahu; nato a Gerusalemme nel 37 d.C., si era spostato nella capitale dell’impero dopo aver tradito il suo popolo accettando l’invito di Tito.

Cosa ne fu di quei relitti portati a Roma, della Menorah in particolare, è un mistero che generazione dopo generazione il popolo ebraico ancora non ha svelato.

«La Menorah fu messa nel Tempio della Pace di Vespasiano» spiega il Professore Samuele Rocca, storico presso l’Università di Ariel. «Sappiamo da uno scritto di Procopio che i Vandali la portarono con loro da Roma [nel 455] nel Nord Africa. Ad un certo punto, arrivò a Costantinopoli. Sembra che i veneziani la presero nel Sacco di Costantinopoli del 1204, ma non sappiamo davvero cosa successe alla Menorah, se fu riportata in Occidente, se fu consegnata al Papa».

Rav Jacov Di Segni sostiene che non sia più rilevante sapere dove si trovano—se ancora esistono—gli arredi del Bet Hamikdash. «Potrebbe essere rischioso, se qualcuno trovasse la Menorah e la considerasse come un idolo». In ogni caso, sostiene Di Segni, «il Terzo Tempio sarà diverso, come leggiamo in una descrizione presente nel libro del profeta Ezechiele».

Oggi, a quasi duemila anni dal trionfo di Tito, possiamo immaginare la scena della processione della Menorah a Roma, grazie al rilievo raffigurato all’interno dell’Arco di Tito, costruito a Roma nell’82 d.C, quel rilievo originariamente dipinto in giallo ocra, come ha rivelato uno studio del 2012.

Tisha Be’Av a Roma

Il popolo ebraico osserva la giornata di Tisha Be’Av in tutto il mondo; si tratta di una giornata di digiuno e preghiera volta a commemorare la distruzione di entrambi i Templi di Gerusalemme. Ma a Roma, dove il Colosseo e l’Arco di Tito ricordano in maniera tangibile la distruzione del Tempio, l’osservanza di questa giornata di lutto è forse ancora più carica di significato.

Il giorno di Tisha B’Av, i membri del Tempio Maggiore siedono per terra sulla navata di destra della sinagoga. «È uso che le persone in lutto cambino posto nel Beit Hakeneset» spiega Rav Jacov Di Segni. «A Tisha Be’Av, la comunità intera è in lutto, quindi tutti cambiano posto».

Tutte le luci elettriche vengono spente la sera per la lettura di Echà, il Libro delle Lamentazioni che narra la storia della distruzione del Primo Tempio. Ognuno tiene in mano una candela per illuminare il proprio testo. Cinque officianti diversi rispettivamente leggono i cinque capitoli di Echà; il chazzan recita la prima parte di ciascun versetto, e i congreganti recitano, in coro, il resto del versetto.

Al termine della preghiera della sera, tutte le candele vengono spente; rimane accesa solo quella del chazzan, che recita una poesia di origini sefardite intitolata Al Echali. “Sul Beit Hamikdash io piango e rimango nell’oscurità”, finisce così la poesia. E quando pronuncia la parola choshech (oscurità), il chazzan spegne la sua candela, in un momento di grande solennità.

«Quando il rabbino Toaff intonava questa poesia con una musica di origini livornesi, l’intero tempio era buio, neanche la sua candela era accesa» racconta Rav Jacov Di Segni, riferendosi allo storico rabbino capo di Roma. «La recitava a memoria, con la candela spenta».

Ovviamente, oltre al Tempio Maggiore di Roma, numerosi minyanim italiani si riuniscono a Tisha Be’Av nella capitale ed in tutta Italia, per non dimenticare la comunità italiana di Rehov Hillel a Gerusalemme, che per l’occasione si riunisce non nell’iconica sinagoga di Conegliano Veneto, bensì presso il Muro Occidentale, il Kotel, dove Echà viene letta con la musica tradizionale romana.

Il libro di Echà

Tisha Be’Av commemora la distruzione di entrambi i Templi di Gerusalemme; ma il Libro di Echà narra la storia della distruzione del primo. Per compensare a questa discrepanza, è uso leggere anche le kinnot, delle poesie che commemorano altre tragedie della storia ebraica, come l’Assedio di Gerusalemme da parte dei romani, le Crociate e l’Olocausto. Rav Di Segni spiega però che si pensa che alcuni dei riferimenti di Echà sul Regno di Edom siano delle profezie sulla distruzione del Secondo Tempio; infatti, secondo il midrash, Edom è collegato a Roma.

Il secondo versetto di Echà dice: “Essa piange, piange di notte”, riferendosi alla città di Gerusalemme. Un midrash citato da Rashì spiega che la ripetizione del verbo “piangere” è profezia della distruzione del Secondo Tempio.

Il Professore Samuele Rocca sostiene che ci sia un’interpretazione comune alla lettura religiosa e a quella storica della giornata di Tisha Be’Av, ovvero che il grande problema della guerra giudaica non siano stati i romani, bensì l’emergere di una guerra civile tra diverse fazioni di ebrei. «Quando i romani entrarono a Gerusalemme, parte della popolazione stava già morendo di fame, perché gli zeloti [una delle fazioni] avevano bruciato gran parte delle provviste di cibo. È uno dei momenti più tristi della storia ebraica».

Secondo la tradizione religiosa, Dio utilizzò i romani come uno strumento di punizione divina per le divisioni interne tra ebrei.

La città di Roma, però, ha anche una valenza positiva nella tradizione ebraica: «Si legge nel Talmud che il profeta Elia dice che il Messia apparirà sulle porte di Roma, tra i poveri e i malati» spiega Rav Di Segni. «Il liberatore sta sempre nella casa del persecutore, come Mosè, che crebbe nella casa del Faraone».

Ogni anno, gli ebrei romani tengono da parte i mozziconi delle candele utilizzate a Tisha Be’Av, in modo da riutilizzarle qualche mese dopo per accendere la chanukkiah. Si tratta di un passaggio simbolico da distruzione a ricostruzione, anno dopo anno.

Questo articolo è stato pubblicato in inglese su Tablet Magazine il 20 luglio 2018 ed è stato tradotto dall’autore stesso e pubblicato col permesso dell’editore di Tablet.

This story originally appeared in English in Tablet magazine, at tabletmag.com, and is reprinted with permission.

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Simone Somekh
Collaboratore

Vive a New York, dove lavora come giornalista e scrittore. Insegna al Touro College di Manhattan. Ha collaborato con Associated Press, Tablet Magazine e Forward. Con il suo romanzo Grandangolo (ed. Giuntina), tradotto in francese, tedesco e in prossima uscita in russo, ha vinto il Premio Viareggio Opera Prima. 

@simonesomekh


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