“They Don’t Care about Us”, un incompreso inno degli oppressi
Uno dei luoghi comuni più errati della critica musicale è stato quello di ritenere che, dopo i tre album prodotti da Quincy Jones (Off The Wall, Thriller e Bad), la carriera di Michael Jackson abbia intrapreso una fase discendente.
Un errore non solo dal punto di vista numerico (Dangerous del 1991 ha superato, anche se di poco, le vendite di Bad), ma anche dal punto di vista musicale, con un sound ancora più moderno e innovativo che mescolava pop, new jack swing, hip hop e r&b, per non parlare dei testi delle canzoni.
HIStory, ancora oggi il doppio album più venduto di sempre con oltre 30 milioni di copie, è stato il primo disco in cui Jackson mostrò compiutamente anche le sue abilità di musicista, suonando tastiera, sintetizzatori, chitarre, batteria e percussioni.
L’album è uno dei lavori più personali e al tempo stesso politici dell’artista, quasi un concept album sulle ingiustizie, il materialismo, le bugie e l’oppressione.
Nella voce del cantante traspare tutta la rabbia e l’indignazione per i dolorosi eventi di quegli anni, in particolare per il caso di Jordan Chandler quando Jackson venne accusato di molestie (non ci fu un processo ma un accordo extragiudiziale, ndr) ma, come spesso accade nei suoi album, Michael trae spunto da un fatto personale per collegarlo a un problema sociale più ampio, in particolare quello del razzismo negli Stati Uniti.
Uno dei brani migliori di HIStory è certamente il rabbioso pop-rap di They Don’t Care About Us, che, con il suo inconfondibile ritmo marziale, il suo adrenalinico bridge e il suo coinvolgente refrain, è un attacco in quattro quarti a un apparato di potere corrotto, un vero e proprio inno degli oppressi, privati dei più elementari diritti civili.
I versi incriminati
Peccato che il testo della canzone fu allora frainteso, scatenando nel 1995 un’accusa lunare di antisemitismo, proprio contro Jackson, l’amico del regista Steven Spielberg.
Bernard Weinraub del New York Times si scagliò contro la canzone, definendola “apertamente critica nei confronti degli ebrei”.
Il giornalista si riferiva ai versi “Jew me, sue me / Everybody do me / Kick me, kike me / Don’t you black or white me” (“Chiamatemi ebreo, fatemi causa / Uccidetemi tutti / Prendetemi a calci, chiamatemi sporco ebreo / Non definitemi bianco o nero”).
Il re del Pop reagì con fermezza alle accuse: “L’idea che queste parole possano essere state giudicate degne di biasimo è davvero dolorosa per me, oltre che fuorviante. La canzone, infatti, parla del dolore provocato dal pregiudizio e dall’odio: un modo per attirare l’attenzione su problemi sociali e politici. Io rappresento la voce di coloro che vengono accusati e attaccati. Sono la voce di tutti. Sono lo skinhead, sono l’ebreo, il nero e il bianco. Ma non sono io ad attaccare”.
Le polemiche, però, non si placarono, così Jackson decise di coprire in studio le parole incriminate della canzone con effetti sonori che ancora oggi coprono quelle strofe.
Il video
Anche il video della canzone ebbe un percorso travagliato.
Il regista Spike Lee, grande ammiratore di Jackson, fu costretto a girare due video di They Don’t Care About Us. Il videoclip originale era ambientato all’interno di una prigione di New York, ma MTV lo escluse dalla programmazione perché mostrava alcune scene di violenza, tra cui pestaggi della polizia e filmati di guerra. Lee realizzò una versione alternativa del video, più rassicurante, girata nel quartiere di Pelourinho a Salvador da Bahia e nella favela di Santa Marta a Rio de Janeiro, dove il cantante era accompagnato dai tamburi tribali. Il messaggio di quella canzone, con il suo coro ripetuto come un mantra, è ancora di grande attualità: “Tutto quello che voglio dire è che a loro (i politici n.d.r) non importa di noi”.