A conclusione della Giornata Europea della Cultura Ebraica, una riflessione sul rapporto tra linguaggio e mondo onirico
Nel corso della Giornata europea della cultura ebraica del 15 di settembre, il tema del sogno è stato declinato in molti modi – la tradizione ebraica, del resto, non manca di spunti in questo campo. Invitata a intervenire al Tempio centrale di Milano, ho dialogato insieme a Stefano Jesurum di sogno e parola. Quelli che seguono sono alcuni dei temi emersi nel corso della conversazione, insieme ad altri che, per motivi di tempo, ne sono rimasti fuori.
Sogno e linguaggio sono entrambi espressione della complessità e dell’ambiguità dell’animo umano, e non per niente sono anche due capisaldi della tradizione ebraica, che pone l’attività interpretativa al centro delle proprie pratiche. L’ambiguità, poi, abita la stessa parola «sogno» che può designare sia le visioni piacevoli o sgradevoli che si impadroniscono di noi durante il sonno, sia l’oggetto di un nostro desiderio, un obiettivo da realizzare attivamente. Si può dire forse che il sogno a occhi aperti e il tentativo della sua realizzazione siano una rivincita sul sogno notturno, di cui siamo soggetti passivi.
Questo intreccio di significati antitetici compare, molto appropriatamente, nell’incipit delle memorie di Eliezer Ben Yehuda (1858-1922), che portano un titolo significativo, Il sogno e la sua realizzazione:
Sono passati circa quarantatre anni da quel momento meraviglioso della mia vita, quando per la prima volta la visione si rivelò davanti ai miei occhi, all’improvviso, nell’oscura notte dell’esilio, solo quarantatre anni, neanche un giubileo, ed ecco, ne vedo il compimento.
E questa è la sua realizzazione che ho ottenuto di vedere ora con i miei occhi, questa è la realizzazione di quel sogno, così meravigliosa, così fulgida dello splendore di maestà e bellezza, che vi sono momenti in cui si affacciano in me brutti pensieri, che questa non sia la realtà, che ciò che mi pare la realizzazione del sogno non sia altro che un sogno a sua volta.
Il sogno di Ben Yehuda era la rinascita di Israel e della sua lingua nella terra dei Padri, di fatto due sogni distinti ma strettamente intrecciati, uno politico, l’altro linguistico, quello cui dedicò tutta la sua vita.
Se circa la parte politica, realizzata dal sionismo, le discussioni sono sempre state e sono tuttora accese anche all’interno del solo mondo ebraico, la realizzazione di quello linguistico ha incantato quasi tutti, è stata celebrata da intellettuali, scrittori e poeti – se ne sono chiamati fuori solo quei gruppi di haredim che ancora oggi preferiscono usare lo yiddish. Come ho scritto altrove, anche questo fermo rifiuto di utilizzare l’ebraico come lingua di tutti i giorni, tuttavia, mostra segni di cedimento. Una lingua può essere respinta per ragioni ideologiche, ma possiede la caratteristica dei liquidi, e le parole si infiltrano anche là dove si chiudono loro le porte in faccia.
Lingua, linguaggio e grammatica
Di fatto il linguaggio è accogliente, ci riceve quando entriamo nel mondo sotto forma di «lingua madre», ma accogliente – per quanto molti siano convinti del contrario – è anche la lingua dell’altro, di chi è radicalmente diverso da noi per storia e costumi. A differenza di uno Stato, un linguaggio non ci chiede il passaporto, non ci respinge alla frontiera, vuole soltanto la nostra attenzione. La grammatica di una lingua è grammatica della comprensione tra esseri umani che supera le barriere con un balzo: vale più di molte spiegazioni su una cultura tenute in un altro idioma. In Totalità e infinito, dove ci offre pagine di grande profondità sull’essenza etica della pratica linguistica, il filosofo lituano-francese Lévinas sostiene che «il linguaggio è giustizia».
Questo, in fondo, è stato il sogno di Ludwik Lejzer Zamenhof (1859-1917), ebreo polacco di Bialistok, quasi perfettamente contemporaneo di Ben Yehuda, oculista di professione, yiddishista e creatore dell’esperanto nel resto del tempo – ragione per la quale merita il raro titolo di «glottoteta» che designa chi conia una nuova lingua – con cui coltivava l’utopia di un idioma comune, neutrale, votato alla comprensione tra i popoli, da affiancare a quello di ciascuno, senza alcuna prestesa di egemonia o sostituzione.
E il linguaggio dell’ingiustizia? Per fare violenza sull’altro è necessario per prima cosa fare violenza alle proprie parole, deformarle fino a tradirne la missione originaria. Ne ha hanno scritto, tra gli altri, Primo Levi e Victor Klemperer, il quale ha dedicato un saggio importante al tedesco del terzo Reich. Anche oggi la caratteristica primaria dello hate speech, che salta all’occhio scorrendo gli insulti sui social, è la sua miseria di lingua decaduta.
La diaspora ebraica è stata, tra le molte altre cose, una fucina linguistica: le comunità ebraiche disperse tra popoli che parlavano altri idiomi li assunsero e modificarono, creando, nella naturalezza del loro commercio quotidiano con il mondo, quelle che il mondo accademico chiama Jewish languages, le lingue ebraiche. Il sionismo, movimento antidiasporico per eccellenza, è stato la fucina in cui è nata l’ivrit, la lingua ebraica moderna, frutto di uno sforzo consapevole e di un sogno condiviso. Il poeta Dan Pagis la descrive così:
La ragazza chiamata Ivrit /è la figlia della vecchiaia di un’ottima famiglia. / E qual è il problema, allora? Che è volubile come una farfalla. / Ogni giorno ce n’è una nuova. / È del tutto inaffidabile, / la sua parola non è una parola. / Non è nemmeno bella: acne giovanile, / gambe grosse. Ed è chiassosa / e testarda come un mulo. / E peggio di tutto: / non permette a chi lo vuole / di soffocare la sua voce selvaggia / e di seppellirla con tutti gli onori / nella grotta di Macpela.
[Dan Pagis, Problema linguistico]
Anna Linda Callow è laureata in lingue orientali. Ha insegnato lingua e letteratura ebraica per molti anni all’Università degli Studi di Milano, ha tradotto dall’ebraico e dallo yiddish per varie case editrici. Ha recentemente pubblicato il saggio La lingua che visse due volte (Garzanti 2019).