Reuven Rivlin si sta rivelando sempre meno un notaio e sempre di più una figura attiva nei processi in atto. Come Giorgio Napolitano in Italia…
Che farà Rivlin? Se la crisi politica in Israele, che dura almeno dall’aprile di quest’anno, non dovesse risolversi con la formazione di una maggioranza alla Knesset, cosa potrà concretamente decidere il Presidente dello Stato d’Israele? La risposta sta già nei fatti: in una democrazia che si basa sulle coalizioni parlamentari, quando queste non raggiungono la soglia minima dei voti per garantire la continuità del governo, ovvero i consensi necessari per vedere passare i suoi provvedimenti (e non trovarsi dinanzi ad un costante fuoco di sbarramento delle opposizioni), non si può che ritornare alle urne.
Il rischio concreto, in questo caso, è che anche la ventiduesima legislatura, nata con il risultato elettorale del 17 settembre scorso, faccia la fine di quella precedente, durata nominalmente cinque mesi (da aprile ai primi di settembre) senza produrre nulla. In buona sostanza, un aborto politico. Nella pur travagliata storia dei governi israeliani, Memshelet Yisrael, ben trentaquattro dalla prima legislatura (di breve durata, dal 10 marzo 1949 al 1° novembre 1950, sotto la presidenza di David Ben Gurion, dopo la fase iniziale, poco meno di un anno, di gestione provvisoria, sotto l’egida del medesimo leader sionista, del nuovo Stato in via di costruzione) ad oggi, non si era mai vista una situazione di stallo di tale genere.
È vero che in Israele gli esecutivi hanno sempre navigato tra ripetute difficoltà, combattendo contemporaneamente su molti fronti di tensione, sia nel rapporto con il legislativo sia con l’indiscussa sovranità della Corte suprema, Beit HaMishpat HaElyon. Non di meno, trattandosi sempre di dicasteri di coalizione, oltre alla contrapposizione parlamentare con la minoranza, si sono ripetutamente trovati nella condizione di doversi sottoporre a defatiganti mediazioni intestine, cercando di volta in volta punti di sintesi tra interessi contrapposti, in genere rappresentati dalla caparbietà con la quale certi ministri difendevano le loro scelte di contro alla volontà del premier e dello stesso Parlamento.
Tuttavia, l’orizzonte politico che si va adesso configurando è quello del vuoto. In carica, per gli affari correnti, ovvero come anitra zoppa, rimane nominalmente il dicastero Netanyahu IV, varato nell’oramai lontano novembre del 2015. Al pari della legge italiana, anche quella israeliana, di natura costituzionalistica, non permette che il Paese sia privo di un esecutivo. Ma quand’esso non ha più la maggioranza parlamentare, la sua funzione è meramente amministrativa, dovendo garantire solo l’essenziale, senza nessun margine di azione poiché privo di una ratifica politica. È in questo caso, quindi, che interviene il Presidente dello Stato, Nasì HaMedinat Yisrael, le cui funzioni sono regolate dalla Legge fondamentale del 1964, per l’appunto di natura costituzionalistica. Il Nasì («Principe» o «Patriarca»), che porta l’antico titolo del capo del Sanhedrin (l’«Alta Corte» ebraica che deteneva l’autorità suprema in materia religiosa, politica, giudiziaria e legislativa, emettendo taqqanot, «ordinanze», nella Palestina romana e bizantina; un tale titolo fu dato alle figure autoritative dal periodo biblico in avanti. Nei testi biblici era proprio dei capi clan o dei leader tribali), svolge nominalmente funzioni circoscritte e può contare su uno scarso numero di poteri sostanziali.
Questo, almeno, sulla carta. Per ogni suo atto necessita della controfirma ministeriale, non essendone politicamente responsabile, con la rilevante eccezione della nomina del Primo ministro, in genere il leader del partito di maggioranza relativa nella coalizione vincente alle elezioni. Se c’è una coalizione, beninteso. Con la riforma del 1996, e fino al 2003, la norma era stata sostituita dall’elezione diretta del Premier. Dopo di che la funzione è ritornata nelle mani del Capo dello Stato. Concretamente, al Presidente sono demandate quelle funzioni di rappresentanza dell’unità nazionale e di preservazione «cerimoniale dei suoi simboli» (così il politologo e giurista Emanuele Ottolenghi) sulla scorta del modello formale che si attaglia al sovrano inglese. Si tratta, a tutti gli effetti, di una figura di continuità (dello Stato), di garanzia (nei confronti della cittadinanza), di unità (della nazione). La durata del mandato è di sette anni e non è reiterabile. Ogni cittadino israeliano residente sul territorio nazionale è in linea di principio candidabile. La Knesset, che è l’organismo chiamato a votare a scrutinio segreto sulle candidature, decide a maggioranza assoluta il nome di colui che è chiamato a ricoprire la carica.
Nel caso che nessuno, alla prima votazione, ottenga la maggioranza (61 elettori), si procede ad una seconda votazione dove sono presenti solo i due candidati che hanno precedentemente ricevuto più assensi tra i deputati. Risulta eletto, in questo caso, chi prende il maggiore numero di voti. In difetto di scelta, ossia se nessuno viene eletto, entro trenta giorni si ripeterà la votazione, anche per nuovi candidati. Dopo di che, una volta eletto, il Presidente deve garantire solennemente, dinanzi alla Knesset, la sua lealtà istituzionale, adottando la seguente formula di giuramento: «Mi impegno ad essere fedele allo Stato di Israele e alle sue leggi e ad esercitare lealmente le mie funzioni di Presidente dello Stato». La medesima Legge fondamentale stabilisce poi le specifiche attribuzioni del Capo dello Stato: la firma delle leggi, ad eccezione di quelle relative ai suoi poteri; l’assolvimento di alcune funzioni attribuitegli specificamente dalla Legge fondamentale sul Governo (del 1968, poi mutata nel 1992 ed emendata nel 2001); ricevere le relazioni da parte del governo sulle attività di quest’ultimo; accreditare i diplomatici degli Stati stranieri ricevendone le credenziali e conferendo i poteri di funzione ai rappresentati di Israele negli altri paesi; firmare le convenzioni con Stati stranieri quando sono state già ratificate dalla Knesset; svolgere le funzioni riconosciutegli dalla legge in relazione alla nomina e alla revoca dalla carica di giudice; esercitare il potere di perdono nei confronti di condannati o di revisione in senso restrittivo o commutativo di eventuali condanne.
Gli atti sottoscritti dal Presidente vanno controfirmati dal Primo ministro, o da un ministro delegato (che ne portano la responsabilità politica, la quale invece non fa capo al Presidente medesimo, ingiudicabile dai tribunali nell’assolvimento delle sue funzioni), con l’eccezione dello scioglimento della Knesset o della formazione di un nuovo governo In sostanza, almeno che chi siede nell’alto scranno non impazzisca, è difficile mettere in discussione un Presidente nel mentre svolge il suo incarico che, lo ricordiamo, coincide con l’unità e la continuità della nazione. Funzioni, queste ultime, così elevate da rasentare l’imponderabilità. In fondo, il Presidente di una repubblica democratica e costituzionale (Israele è l’una e l’altra cosa, poiché anche se non è mai riuscita a dotarsi di una Costituzione, per l’opposizione parlamentare soprattutto delle componenti maggiormente ortodosse, ha tuttavia un corpus di leggi costituzionali propriamente intese) è una sorta di grande sacerdote, garante dello “spirito profondo” del Paese. Fin qui, comunque, gli aspetti giuridici e di principio.
Se sussiste una potenziale coalizione di maggioranza, il ruolo del Presidente è poco più che notarile: conferisce il mandato esplorativo al Premier incaricato, che svolgerà le sue verifiche per poi ripresentarsi per accettare definitivamente la nomina procedendo alla esecutività del suo dicastero («Quando deve essere costituito un nuovo governo, il Presidente dello Stato, dopo aver consultato i rappresentanti dei gruppi parlamentari della Knesset, assegna l’incarico di formare un governo a un membro della Knesset che gli ha notificato di essere pronto ad accettare l’incarico […] entro sette giorni dalla pubblicazione dei risultati delle elezioni […]»; inoltre, il premier incaricato: «avrà un periodo di 28 giorni per l’adempimento di tale compito. Il Presidente dello Stato può prorogare il periodo […per] un totale di 14 giorni»). Altrimenti le cose si complicano. Ovvero, si deve dare il caso che emerga una nuova candidatura – ovviamente supportata da una maggioranza parlamentare – oppure si va a nuove elezioni. Quest’ultimo esito è l’orizzonte, per venire alla cronaca politica di questi giorni, verso il quale veleggia Israele. Che rischia l’ingovernabilità politica, poiché è assai improbabile, se non impossibile, che un terzo passaggio alle urne, nel giro di un anno, possa sancire la definizione di una maggioranza che, come non c’è stata in questi mesi appena trascorsi, in tutta plausibilità non si darà neanche dopo un’ulteriore, defatigante voto popolare. Che però senz’altro sancirebbe la stanchezza degli israeliani verso una classe politica che sembra sempre più spesso immobilizzata dentro le sue logiche autoreferenziali.
Ed è qui che entra in gioco, e di peso, il ruolo dell’attuale presidente Reuven «Ruby» Rivlin (tutti i politici di peso in Israele hanno un soprannome pubblico, in genere il diminutivo del nome stesso). Garante istituzionale ma anche, a questo punto, soggetto politico, ossia capace di andare oltre il severo perimetro istituzionale. Vediamo quindi di capire qualcosa di più al riguardo. Intanto, chi è Rivlin? La prima cosa che si può dire di lui è che, passo dopo passo, si sta rivelando sempre meno un notaio e sempre di più una figura attiva nei processi in atto. Per associazione di idee, verrebbe da pensare ai due mandati, molto attivistici, di Giorgio Napolitano in Italia, ma anche alla moral suasion che Sergio Mattarella esercita in questo periodo sulla politica del nostro Paese. La biografia di Rivlin, a sua volta, è completamente interna al sistema politico nazionale. La qual cosa implica che egli si senta depositario non solo delle funzioni istituzionali delle quali è stato incaricato ma anche delle culture politiche che sono alla radice di Israele.
Nato a Gerusalemme nel 1939, si forma professionalmente (e culturalmente) come avvocato, studiando nell’università della sua città d’origine. Conosce quindi il diritto, non solo sul piano formale. Ma è anche figlio di Yosef Yoel Rivlin, il primo traduttore del Corano in ebraico. La discendenza famigliare è blasonata, vantando tra i suoi antesignani rabbi Yosef di Ovan, esponente di alto lignaggio della comunità aschenazita viennese. Se la famiglia Rivlin è arrivata a Gerusalemme nel 1809, non essendo quindi parte dell’immigrazione sionista ma essendosi semmai trapiantata già nel «vecchio Yishuv», quello legato alla fede e alla religiosità, il giovane Ruby segue comunque tutta la trafila tipica dei cittadini israeliani: svolge il servizio militare, dove diventa ufficiale, viene abilitato alla professione forense, conosce e poi sposa Nechama, ricercatrice e studiosa di biologia, zoologia e genetica presso l’Università ebraica di Gerusalemme, dalla quale avrà quattro figli. Si dichiara anche vegetariano, quanto meno dagli anni Sessanta.
Prima di assumere incarichi politici è stato consigliere del Moadon Kaduregel Beitar Yerushalayim, una società sportiva e calcistica tra le più accreditate e titolate in Israele. Viene poi eletto nel consiglio municipale della capitale ed assume diverse cariche pubbliche nelle istituzioni culturali locali. L’insieme di queste cose fanno sì che ben presto venga soprannominato «l’uomo di Gerusalemme», appellativo di cui sicuramente è geloso custode, anche se esso nasconde più di un significato. Entra in politica negli anni Settanta, nel mentre in Israele si sta compiendo la transizione dai governi egemonizzati dalla sinistra a quelli di destra. Dopo avere tentato, senza successo, di essere candidato a sindaco di Gerusalemme per il Likud, il partito nel quale milita da subito, nel 1988 entra una prima volta alla Knesset come deputato.
Non sempre rifulge per particolari qualità, essendo soprattutto un uomo di partito, ossia un likudnik molto impegnato nel preservare e coltivare la cultura politica del revisionismo, del quale la sua formazione di riferimento è l’erede naturale. È tuttavia a lungo considerato un «falco» prediligendo, per la soluzione del conflitto con i palestinesi, alla formula dei «due Stati» quella che è invece conosciuta come «opzione giordana», che di fatto implicherebbe la non nascita di una comunità politica indipendente palestinese. Sempre nel 1988 viene eletto presidente del Likud, carica che manterrà fino al 1993, quando invece non riuscirà ad essere rieletto al parlamento. Dentro il Likud, partito nel quale Rivlin si muove a suo agio, è un mediatore tra le diverse componenti. Anche per questo gli vengono facilmente attribuiti incarichi rappresentativi. Ritornerà a fare il deputato nel 1996, con la vittoria alle legislative di Netanyahu. Nel 2001 diventa quindi ministro delle comunicazioni nel governo presieduto da Ariel Sharon. Proprio sul tema dei rapporti con i palestinesi (nel 2010 avrebbe dichiarato: «Preferirei avere i palestinesi come cittadini di questo paese, piuttosto che dividere la terra in due parti»), di fatto va in rotta di collisione con il carismatico leader della destra, non condividendo la sua politica di progressivo disimpegno da Gaza (ed in prospettiva, da una parte della Cisgiordania). Forse è in questa circostanza che inizia a maturare un profilo politico pienamente autonomo. Sta di fatto che il corpo a corpo con Sharon non lo mette fuori gioco. Divenuto nello stesso anno speaker (ossia presidente) della Knesset, carica che si vedrà riconfermata dal 2009 al 2013 (90 deputati a favore, su 120 votanti), si pone quindi al centro degli snodi della politica parlamentare israeliana, di cui è senz’altro uno dei maggiori conoscitori (oltre che, ovviamente, protagonista). Nel mentre, ossia nel 2007, era già stato candidato dal Likud alla carica di Presidente dello Stato, dovendo però cedere il passo a Shimon Peres.
La figura di Rivlin, dal punto di vista della destra, doveva servire a ridare smalto e credibilità all’istituzione, dopo il declino del presidente uscente, Moshe Katsav, autosospesosi anche a causa delle accuse di violenza sessuale rivoltegli. All’atto del voto parlamentare, nel primo scrutinio, tuttavia Ruby si vede garantire solo 37 assensi, ritirandosi anticipatamente dalla competizione. La convinzione era quella di non avere maturato un sufficiente seguito tra i suoi stessi colleghi di area politica.
Peraltro, sono quelli gli anni in cui Benjamin Netanyahu completa la sua egemonizzazione del partito nel quale milita anche Rivlin (la fuoriuscita di Tzipi Livni, insieme a quella di Ehud Olmert e dello stesso Sharon, cofondatori del partito centrista Kadima, si inscrive in queste dinamiche, intrecciate alla crisi della sinistra e al tentativo di creare uno spazio politico al centro in grado di andare stabilmente oltre la tradizionale ma consunta divisione tra destra revisionista e sinistra socialdemocratica). I rapporti tra i due sono tutto fuorché cordiali, contraddistinguendosi semmai per un elevato tasso di conflittualità. La divisione, al netto delle differenze caratteriali, si gioca sul piano della stessa identità politica. Mentre Bibi è un libero battitore, che intende la destra come l’habitat naturale nel quale implementare innovazioni politiche fondate soprattutto sulla sua carismaticità, sulla capacità di creare coalizioni, sullo scompaginare con un continuo gioco di movimento le file avversarie (ma anche il notabilato interno al Likud), Ruby è molto più legato al filo logico che lega il revisionismo politico ad Israele e quest’ultima alla sua storia di oramai lungo periodo.
Per lui il Likud deve essere garante degli equilibri maturati nel Paese, a livello politico, civile ma anche morale. Lo fa nel suo ruolo di speaker della Knesset, rompendo spesso le uova nel paniere dell’energico, a tratti ipercinetico, premier. Che non gradisce per nulla l’«imparziale» Rivlin, il quale invece non dispiace alle opposizioni. Ruby ha tuttavia il cuore che pulsa verso quell’altra presidenza, ovvero dello Stato. Potrebbe trovare un ostacolo insormontabile in Netanyahu, che infatti cerca di identificare una candidatura alternativa da lanciare nel momento in cui il settennato (2007-2014) di Peres si concluderà. Non è tuttavia tanto il grigiore di nomi diversi quanto il crescente affaticamento politico, come anche giudiziario, di «re Bibi» ad aprire a Rivlin dei varchi di inaspettata opportunità. Per essere chiaro, in un’intervista al Jerusalem Post antecedente alla sua elezione, Rivlin dichiara espressamente che «il Presidente è il volto dello Stato di Israele nel mondo, non il rappresentante di una specifica ideologia, ma della creatività collettiva e della storia del popolo ebraico».
Si tratta di affermazioni a filo di fioretto, affinché chi deve intendere, intenda possibilmente appieno. Il Likud, sul quale Ruby non ha mollato la presa, lo candida quindi alla Presidenza dello Stato. E il suo compagno di partito nonché antagonista manda giù il rospo, sia pure a malincuore. Al primo turno della votazione alla Knesset Rivlin raggiunge solo i 44 voti, di contro ai 31 di Meir Sheerit (parlamentare di lungo corso, esponente di Kadima fino al 2012, poi di Hatnuah, sempre con Tzipi Livni), ai 28 di Dalia Itzik (vicina ad Ehud Barak, poi in Kadima nonché già Presidente ad interim per quindici giorni, nel 2007), ai 13 di Dalia Dorner (già membro della Corte suprema d’Israele) e al solo voto guadaganto da Dan Shechtman (scienziato e premio Nobel per la chimica nel 2011). Al ballottaggio tra Rivlin e Sheerit passa il primo, con 63 voti contro i 53 dell’avversario.
Il 24 luglio 2014 Rivlin diventa pertanto il decimo Presidente d’Israele. Dopo la vittoria del Likud alle elezioni legislative del 17 marzo 2015, nell’incaricare Netanyahu di assumere il premierato, si pronuncia a favore di un governo di unità nazionale, cosa che per nulla piace al primo ministro Dopo avere espresso il suo cordoglio per la morte di un bambino palestinese, ucciso nel rogo doloso della sua casa causato da alcuni estremisti ebrei, inizia quindi a ricevere minacce di morte. Sempre più spesso nei network del radicalismo della destra ipernazionalista si parla dell’oramai ultrasettantenne Presidente come di un «traditore», un «arabo» (di spirito, non certo d’origine) che starebbe venendo meno alla sua funzione di garante dell’ebraicità d’Israele. Il resto è cronaca dei nostri giorni, a partire dal suo secco pronunciamento nei riguradi di quelle misure (espropriazione legale dei terreni in Cisgiordania; allocazione differenziata delle risorse finanziare tra le scuole ebraiche e quelle non ebraiche; legge su Israele «Stato-nazione» del popolo ebraico) nelle quali evidenzia di non riconoscersi.
Più che un astratto ideale di giustizia in Rivlin si manifestano quattro spinte correlate: la prima di esse è il rifiuto del particolarismo etnico professato dalla destra estrema, radicata soprattutto negli insediamenti in Giudea e Samaria; la seconda, è la difesa della laicità dello Stato, ossia del principio di separazione tra amministrazione politica e civile, da una parte, e religione dall’altra; la terza è il principio del Presidente di «tutti i cittadini», compresi gli arabi israeliani (nell’ottobre del 2014, nel mentre visita il villaggio arabo di Kafr Qassem, dichiara alla stampa che «gli arabi israeliani sono il sangue e la carne di Israele») ma anche di quelle minoranze ebraiche, come i Beta Yisrael, maggiormente svantaggiate; la quarta, infine, è la riformulazione, da vecchio likudnik, del tema della riconciliazione e della coesistenza tra israeliani e palestinesi, laddove sostiene anche che possa sussistere un’identità israeliana condivisa tra arabi ed ebrei membri dello stesso Stato. Temi fondamentali nel dibattito politico nazionale, soprattutto dal momento che la divisione tra destra e sinistra in questi vent’anni, almeno a partire dal fallimento dell’ultimo tentativo di soluzione negoziata del conflitto con i palestinesi, con Bill Clinton ed Ehud Barak, ha avviato un lungo periodo di grigio immobilismo su tale versante, impropriamente conosciuto come status quo. Nel mentre, invece, Israele continua a mutare radicalmente. Anche nella sua identità.
Claudio Vercelli
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.