Partendo dal libro “La razza e la lingua” parliamo di linguistica, neuroscienze e grammatica universale
Le lingue e i luoghi comuni. Una lingua è bella e melodiosa, un’altra sgraziata e stonata. Una lingua si presta alla speculazione filosofica, l’altra basta a malapena per fare la spesa. Lingue che sono migliori di altre. Come sovente accade con i luoghi comuni, anche per quelli che riguardano le lingue l’innocuità è solo apparente. Se la lingua condiziona il modo di pensare e di ragionare e se ci sono lingue migliori di altre, significa che ci sono esseri umani che pensano e ragionano meglio di altri, persone naturalmente migliori di altre: e questa è un’idea razzista. Un pregiudizio pericoloso, da riconoscere e demolire pezzo dopo pezzo: Andrea Moro – linguista e neuroscienziato, Professore e Rettore Vicario presso la IUSS di Pavia, recentemente ospite al Memoriale della Shoah di Milano per la rassegna Pensieri di libertà – lo ha fatto nel suo ultimo libro, La razza e la lingua. Sei lezioni sul razzismo (La Nave di Teseo, 2019). Usando gli strumenti della filosofia, della linguistica e delle neuroscienze, Moro affronta, scompone, decostruisce il razzismo linguistico fino a spiegare una semplice, eppure sorprendente verità: da un punto di vista biologico, parliamo tutti la stessa lingua. Proprio da qui comincia la nostra intervista.
Quando afferma che da un punto di vista biologico gli esseri umani parlano tutti la stessa lingua, cosa significa esattamente? E dal punto di vista linguistico?
“I due punti di vista non sono dissociabili. Il punto di vista linguistico ci dice che se analizziamo le lingue con un apparato formale adatto (matematico, essenzialmente) le differenze superficiali spariscono ed emerge una sostanziale unità. Quello biologico ci dice che se il cervello è esposto a tipi di regole che sono comprese nel perimetro delle variazioni possibili che emerge dall’analisi formale e matematica, allora reagisce sempre nello stesso modo. Il fatto cruciale però non è tanto che tutte le lingue attestate attivano gli stessi circuiti ma che se si costruisce artificialmente una lingua che non sottostà a questa matrice unitaria, pur essendo coerente e completa, il cervello la riconosce come estranea al linguaggio. Con questi esperimenti abbiamo provato che esistono lingue “impossibili” e che quelle possibili sono il prodotto dell’architettura del cervello e non una convenzione culturale di natura arbitraria. Di questo argomento parlo in due dei miei libri precedenti: I confini di Babele. Il cervello e il mistero delle lingue impossibili (Il Mulino, 2015) e Le lingue impossibili (Raffaello Cortina Editore, 2017)”.
Davvero la lingua non influenza il modo di vedere il mondo? Ci sono ad esempio tesi, come quella pubblicata dall’Economist nel 2013, che sostengono che i poliglotti cambiano personalità nel passare da una lingua all’altra: cosa ne pensa?
“L’espressione “il modo di vedere il mondo” è molto suggestiva e affascinante ma non ci spiega affatto cosa si può misurare e se non si vuole rimanere in una mistica soggettiva e arbitraria bisogna cercare domini misurabili. Ad esempio, nel libro descrivo il caso della percezione dei colori: al variare del lessico dei colori (le lingue possono avere pochissimi nomi o tantissimi) la percezione dei colori rimane invariata. Quanto alla citazione dell’articolo dell’Economist credo che sia accettabile ma solo perché noi associamo alla conoscenza di una lingua specifica un ambiente e delle emozioni specifiche che però non hanno nulla a che fare con la grammatica. Dunque, è credibilissimo che passando da una lingua all’altra ci siano connotazioni psicologiche ed emotive diverse. D’altronde, ad esempio in Italia, molti sperimentano l’uso del dialetto per emozioni più personali e familiari rispetto all’italiano, magari acquisito in forma sofisticata e propria solo da adulti e fuori dal contesto familiare”.
Il poliglotta ha consapevolezza di una grammatica universale che accomuna le pur diverse lingue tra cui il cervello sa muoversi?
“No, ma nemmeno un linguista professionista ce l’ha: la conoscenza di una grammatica universale non è accessibile all’introspezione diretta e dunque al livello della consapevolezza. Sarebbe come sperare di essere consapevoli che il sole è fermo e la terra gira intorno. Lo sappiamo ma siamo semmai consapevoli del contrario, pur sbagliandoci e sapendo di sbagliare”.
E per chi impara le lingue da adulto?
“In questo caso, forse, dato lo sforzo di apprendimento che non sfrutta i canali naturali, se la persona che studia è sufficientemente informata ed intelligente può accorgersi di somiglianze profonde tra le lingue ma non è affatto scontato ed è anzi, molto difficile che accada”.
La capacità di parlare più lingue sin dall’infanzia può essere uno strumento contro il razzismo linguistico?
“No, non è sufficiente: il razzismo linguistico si annida in teorie sbagliate”.
Nel suo ultimo libro illustra il percorso che portò a unire razza e lingua in un ideale di purezza, quella cosiddetta ariana, con le terribili conseguenze che conosciamo. In che modo la linguistica si occupa di razzismo e qual è l’idea sottesa al razzismo linguistico?
“La linguistica si occupa di razzismo semplicemente perché il vero razzismo nasce come denigrazione del diverso non in senso fisico -quello è tutto sommato banale se non spesso ridicolmente soggettivo – ma in senso intellettivo. Il razzismo più violento e difficile da sradicare è quello di chi crede che esistano popolazioni inferiori nella comprensione della realtà, nell’elaborazione di ragionamenti e nella comunicazione di idee. Siccome il linguaggio è centrale in tutte e tre le funzioni, la linguistica non può essere neutrale. Può darsi ovviamente che io abbia torto e che abbiano torto insieme a me tutti coloro che sostengono che esistono prove per dire che la struttura delle lingue e l’impatto nella comprensione ed elaborazione dei concetti è identico; ma se queste idee sono sbagliate ci si renda conto che abbiamo spalancato le porte al razzismo, quello della stessa matrice che portò al delirio della razza ariana, peraltro sconfessato dai linguisti stessi già nell’ottocento”.
Il pericolo dell’eulinguistica – tema del suo precedente romanzo – cioè della distruzione voluta del pluralismo linguistico e dell’imposizione di un’unica lingua artificiale (una sorta di Babele al contrario) è reale? Perché? Quali strumenti abbiamo per prevenirlo?
“Nel romanzo (Il segreto di Pietramala, La Nave di Teseo 2018) parlavo di una lingua artificiale che per fortuna non riesce ad attecchire. Ho messo in forma narrativa, tra le due isole della Corsica e di Manhattan, la strana avventura di un ragazzo che insieme a due amici cerca di sventare questo piano diabolico, ma uno degli ingredienti del romanzo è proprio il fatto che i bambini di Pietramala, un borgo della Corsica dove avviene l’esperimento nei secoli passati, non sono in grado di apprendere lingue innaturali. Noi certamente siamo protetti da lingue artificiali innaturali ma dobbiamo anche vegliare perché la propaganda politica non ci faccia abituare a parole che sembrano chiare e che invece sono solo uno strumento di controllo”.
Sul rapporto tra la lingua e il trauma, in particolare sul rapporto della scrittura con la Shoah: alcuni ebrei autori di lingua tedesca sopravvissuti alla Shoah hanno poi scelto di abbandonare quella lingua, di non utilizzarla più. Altri hanno discusso sulla possibilità di scrivere dopo la Shoah. Quel dire/non dire in una lingua che rappresenta il trauma, come si spiega?
“Non so spiegarlo io come linguista: si tratta di un fenomeno psicologico e non linguistico e, almeno per quanto riguarda la mia sensibilità e i miei studi, nessun linguista potrebbe commentare questa scelta che è autonoma e del tutto legittima. Ma nella cultura ebraica non c’è soltanto la legittima scelta della negazione: questa cultura è così forte da aver vissuto la scelta opposta, quella del recupero e dell’affermazione di una lingua che era di fatto morta. Questi due casi, opposti ma simmetrici, non fanno che manifestare la centralità della lingua nella cultura ebraica e offrono un modello esplicito ad una forza che in realtà è potente in molte altre culture”.
Cosa pensa dei tentativi che oggi vediamo di rendere più inclusivo il linguaggio da una prospettiva di genere?
“Penso che qualsiasi sistema serva per ottenere una parità di fatto, di genere innanzitutto, debba essere utilizzato ma devono anche essere chiare due cose: primo, che cambiare la grammatica non è necessario né sufficiente per cambiare la realtà; secondo, che certe volte cambiando la grammatica ci si assolve secondo uno schema bigotto e moralista e si evita di agire in modo concreto ed efficace”.
Andrea Moro, “La razza e la lingua. Sei lezioni sul razzismo”, edizioni La Nave di Teseo, collana “i Fari”, 14, 45 euro (libro), 9,99 euro (e-book).