Da Israele a Selvino (BG), per riappropriarsi di un racconto familiare di sopravvivenza e determinazione: le storie di Miriam Bisk e Tami Sharon
Che cosa significa portare avanti la memoria come seconda generazione, cioè figli di sopravvissuti alla Shoah? Riscoprire la storia, cercarla, insistere quando si nasconde e il tratto che unisce i punti si spezza. Capire il passato per capire i propri genitori: silenzi, abitudini, emozioni non raccontate.
Domande che riguardano non solo la guerra, ma anche il dopo. Come è stato possibile trovare la forza di ricominciare? Per le persone di cui parla questa storia, ci fu un luogo speciale: Sciesopoli, a Selvino, nelle Prealpi bergamasche, la grande casa che da colonia estiva fascista venne trasformata dopo il 1945 in un luogo di accoglienza per ottocento bambini ebrei orfani, provenienti da tutta Europa, sopravvissuti alla Shoah. Un rifugio, una sosta prima di imbarcarsi per il nascente Israele, ma soprattutto un luogo di cura e guarigione, la cui storia è oggi raccontata dal MuMeSe, il Museo Memoriale Sciesopoli Ebraica. Dopo l’ultimo ritrovo nel 2015, Selvino si sta preparando a ospitare, questa primavera, un nuovo incontro degli ex bambini di Sciesopoli e delle loro famiglie, a 75 anni da quel 1945.
Qui su JoiMag due delle organizzatrici, entrambe testimoni di seconda generazione, condividono la loro storia personale: sono Miriam Bisk, presidente dell’Associazione Children of Selvino, e Tami Sharon; figlie di sopravvissuti che, dopo la guerra, nel percorso verso Israele, si fermarono per qualche tempo a Sciesopoli come educatori. Come gli orfani di cui si occuparono, erano smarriti, senza una casa e solo di poco più adulti.
A prendere la parola per prima è Miriam: “Mia madre, Lola Popinska, nacque a Lodz, in Polonia, in una famiglia religiosa ortodossa. Aveva 16 anni quando scoppiò la guerra. Già un anno prima che i nazisti invadessero la città, aveva capito che bisognava trovare un modo per andarsene. I suoi tentativi di convincere i genitori e le sorelle furono vani. Alla fine fuggì da sola, con due compagne di scuola: i miei nonni le diedero la loro benedizione, perché avevano capito che era giovane e poteva farcela”.
Lola riesce raggiungere la Russia, dove comincia una vita precaria, da una località all’altra, a volte col sostegno di un lavoro temporaneo, a volte no. Per un certo periodo si ferma in Siberia, dove lavora in una miniera di carbone. Miriam continua: “A fine guerra, i sovietici rimpatriarono i profughi. Ma non c’era nessuna patria in cui tornare. Anche entrare in città poteva essere pericoloso. Sul treno di ritorno, mia madre incontrò l’uomo che sarebbe diventato mio padre. A ogni stazione c’erano delle rappresentanze di movimenti ebraici, che cercavano di aiutare i profughi, soprattutto persuadendoli che era inutile che continuassero il viaggio verso ciò che un tempo avevano chiamato casa. I miei si unirono al Gordonia, un movimento sionista attivo in Polonia già da prima della guerra. Una strana coppia: lui sionista da sempre, lei tornata dalla Russia come comunista, che del nazionalismo ebraico non voleva saperne. Ma non era rimasta un’altra famiglia. Dopo aver completato una sorta di percorso di formazione, dalla Polonia furono mandati in Austria attraverso la Cecoslovacchia, e infine in Italia, passando attraverso diversi DP Camps (i campi per displaced persons istituiti dagli Alleati). Da Rivoli furono indirizzati a Sciesopoli, che aveva bisogno di educatori e lavoratori. Lì trascorsero circa quattro o cinque mesi. Se ne andarono quando mia madre si accorse di essere incinta di me: l’idea di portare avanti la gravidanza in un luogo così isolato le faceva paura, e in più sognava di farmi nascere in Israele. 24 ore fu il tempo che i miei genitori ebbero a disposizione per raggiungere La Spezia e salire su una delle famose “navi della speranza”. Non mi è chiaro come, ma ce la fecero”.
La nave però viene intercettata dagli inglesi e i passeggeri inviati in un campo profughi a Cipro. Lì nasce Miriam. “La situazione era difficile: molte malattie e un alto tasso di mortalità. Nel 1947, prima della risoluzione Onu sulla nascita di Israele, Golda Meir fece visita al campo e riuscì a convincere gli inglesi a lasciar partire almeno le famiglie con bambini piccoli. La prima nave trasportava 614 passeggeri. Una ero io”. Miriam precisa: “Se parlo solo di mia madre, è perché da mio padre non ho mai saputo nulla. Non ha mai voluto parlare di quel periodo, né tornare in Polonia. Mia madre al contrario ha voluto tornare, con me e mia sorella: era il 1989, siamo partite da Lodz e abbiamo rifatto insieme il percorso verso est che fece a 16 anni“.
Per la madre di Tami, Lea Ben-Dov, la storia è simile: una fuga dalla Polonia, un treno per l’Uzbekistan e da lì per la Russia. Lea però è ancora più giovane: ha solo 11 anni quando tutto comincia. Finita la guerra, il viaggio si rifà da est verso ovest, verso una casa che non esiste più. “Anche mia madre aderì a un movimento giovanile ebraico. Le affidarono una quindicina di bambini orfani da far arrivare a Sciesopoli. Lì si fermò per quasi un anno, dopodiché si imbarcò a La Spezia“. Di nuovo, la nave è intercettata e deviata a Cipro per qualche mese. Tami però nasce in Israele, a Rehovot. “Dal lato della famiglia di mia madre – mio padre è un sabra – abbiamo sempre avuto informazioni frammentate. A parte alcuni parenti nel kibbutz di Ramat HaKovesh, sapevamo vagamente di altri scappati dall’Europa in diverse parti del mondo, ma poco di più. Da bambini avevamo quasi una sorta di rifiuto nei confronti della storia di mia madre. Oggi penso che se glielo avessimo permesso, lei ne avrebbe parlato di più. Ma quando ci provava, si emozionava e piangeva, e noi pensavamo che tacere fosse meglio per tutti. Anche le commemorazioni di Yom HaShoah e Yom HaZikkaron, le vivevamo con un senso di fastidio: mentre tutti accendevano le candele, noi trovavamo un modo per allontanarci. Non è facile ascoltare il racconto del male fatto ai tuoi genitori”.
Il passaggio del testimone, per Miriam e Tami, non avviene attraverso il dialogo diretto con le madri, ma con una memoria scritta a fare da tramite. “Quando mia madre compì 65 anni, ci rivelò che per tutto il tempo della guerra aveva tenuto un diario (lo aveva iniziato il 1° settembre 1939), in polacco e russo, e che lo avrebbe tradotto in ebraico perché rimanesse a noi figli. La prima volta che lo lessi ero nel periodo in cui sei tutta presa a tirare su i figli e non si “depositò” nel modo giusto”, dice Miriam. “In seguito, quando lei morì, decisi di riprenderlo e di tradurlo in inglese per i miei figli (mio marito è americano, loro parlano l’ebraico ma non lo leggono né scrivono). Ci ho messo quasi un anno per tradurlo, ma soprattutto per capirlo”.
Per Tami invece tutto parte da un misterioso scatolone: “Quando mia madre divenne molto vecchia decise che preferiva trasferirsi in una struttura per anziani, così le mie sorelle ed io l’aiutammo a svuotare casa. Lei ci indicò uno scatolone e ci chiese di tenerlo da parte. Rimase tutta la casa vuota con questo scatolone in mezzo ai piedi. Un giorno gli trovammo un posto in alto e non ci pensammo più. Mia madre venne a mancare qualche mese dopo e lo andammo a recuperare. Trovammo quaderni, lettere, poesie – in yiddish, ebraico e russo – e molti di quegli scritti parlavano di Selvino. Sapevamo che aveva un talento per la scrittura – era conosciuta da tutti per i biglietti d’auguri speciali che preparava per le ricorrenze – ma di Selvino non ci aveva mai parlato.
Selvino e Sciesopoli. nomi mai sentiti. “Capire il percorso di mia madre verso Israele era la cosa più importante per me: una persona scampata a tante sofferenze, che sceglie di salire, non su un treno o su un aereo sicuro, ma su una nave illegale che non sai se giunge a destinazione o no. Da dove vengono la forza e il coraggio? Così decisi che volevo rifare il viaggio di mia madre”, dice Miriam, “ma quello dopo la guerra. Però non riuscivo a capire dove fosse questa Sciesopoli di cui parlava nel diario. Credendo fosse il nome di una località, cercavo sulle mappe. Finché un giorno un amico italiano non trovò su Internet il link a una ricerca della storica Liliana Picciotto che ne parlava”.
Miriam fa così il primo viaggio a Selvino, accompagnata dallo storico Marco Cavallarin. Dopo la scoperta dello stato di abbandono e degrado in cui versa la casa, viene avviata la mobilitazione per il suo recupero. Nasce così l’associazione, Miriam, Tami e gli altri si incontrano e lavorano insieme. L’inaugurazione del Museo Memoriale è il primo vero successo ottenuto. Il raduno per il 75° anniversario di Sciesopoli Ebraica è la prossima tappa. “Quando ho compiuto 65 anni ho festeggiato per la prima volta il mio compleanno a Cipro e lì ho raccontato la mia storia. Ripercorrere il tragitto dei miei genitori mi ha lasciato con molta più forza di prima, come testimone di seconda generazione. Anche se non assomigliava al loro, perché io ho viaggiato comoda e sicura: però mi ha fatto capire il loro coraggio, la loro tenacia di sopravvivere e ricominciare. Tra le seconde generazioni degli ex bambini di Selvino si è formato un legame speciale, che ci aiuta a capire i nostri genitori. Ognuno ha la sua storia personale, ma è come se tutte confluissero verso uno stesso imbuto”, spiega Miriam.
E Tami aggiunge: “A Sciesopoli si veniva incoraggiati a scrivere lettere, per scoprire se ci fosse qualche parente ancora in vita. Nello scatolone ho trovato il carteggio tra mia madre e i parenti di Ramat HaKovesh, e delle poesie che raccontano le sue emozioni dopo la prima risposta, l’aver ritrovato un pezzetto di famiglia. Alcune sono in yiddish, altre in un ebraico sorprendentemente bello, se pensi che aveva interrotto gli studi a 11 anni. Ritrovare quel materiale mi ha fatto provare il dispiacere di non aver parlato di più con lei, ma mi ha anche fatto avvicinare alla sua storia”.
Come il diario della mamma di Miriam, anche le lettere e poesie della mamma di Tami sono state pubblicate. Prima di congedarci, chiedo a Miriam e Tami che cosa ci sia, dal loro punto di vista, di attuale in tutta questa storia. “L’esempio della comunità locale nell’accoglienza dello straniero”, risponde Miriam. “Ci sono testimonianze di gesti straordinari. Il fornaio che riceveva un ordine di 120 pagnotte e ne inviava 150. I bambini che orgogliosi correvano dal fotografo con indosso i vestiti nuovi appena ricevuti dal JDC (Joint Distribution Committee) e lui che non chiedeva di essere pagato. Accogliere lo straniero, accettare la sua fragilità, aiutarlo a integrarsi nella comunità, questo è il nostro messaggio”. Conclude Tami: “L’altro esempio viene proprio dai sopravvissuti. Sono arrivati in Israele senza più nulla ed è incredibile ciò che sono riusciti a fare. Costruire, crescere famiglie, avere successo. Molti di loro hanno contribuito in modo determinante alla cultura del paese: come l’attore Shmuel Shilo, il direttore d’orchestra e compositore Gary Bertini, il musicologo Yaakov Hollander. Il fondatore di Sciesopoli Ebraica, Moshe Zeiri, non era solo un educatore, ma anche un uomo di cultura, con una visione: dare a quegli orfani la possibilità di un nuovo inizio. E Selvino fu il luogo dove ritrovarono la forza e la voglia di vivere”.
Laureata a Milano in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale, ha studiato Peace & Conflict Studies presso l’International School dell’Università di Haifa, dove ha vissuto per un paio d’anni ed è stata attiva in diverse realtà locali di volontariato sui temi della mediazione, dell’educazione e dello sviluppo. Appassionata di natura, libri, musica, cucina.