Le radici dell’identità ebraica italiana contemporanea, gli ideali risorgimentali, il fascismo e la resistenza
Isaiah Berlin, nel suo arguto testo su «schiavitù ed emancipazione degli ebrei», affermava qualcosa che ben si attaglia per descrivere e definire la parabola dell’ebraismo italiano, ovvero di coloro che ne hanno animato la storia in questi ultimi centocinquant’anni, dalla progressiva e timida introduzione degli statuti di emancipazione dalla minorità giuridica, altrimenti vigenti in tutta la Penisola, ad oggi: «L’ansia di negare la differenza è di per sé una barriera frapposta alla sua scomparsa».
Il lettore di queste note non ne tragga da subito affrettate conclusioni. La storia degli ebrei italiani non può infatti essere racchiusa, raccolta e descritta sotto un unico paradigma. Ovvero, non si nutre di un solo elemento ma, piuttosto, è il precipitato di un insieme di fattori di ordine sociale, economico e culturale. Di fatto, se si parla di ebrei, come già si è avuto modo di affermare, si è in presenza di una «minoranza densa», ossia di un gruppo che preserva una forte identità, soprattutto in rapporto ai vincoli di ordine endogamico, solo parzialmente rinegoziati e attenuati dalla maggiore familiarità – che va affermandosi dall’Unificazione in poi – con la prassi dei matrimoni misti, quelli consumati con non ebrei. Peraltro spesso non agevolati e comunque non infrequentemente comportanti due esiti al medesimo tempo contrapposti ma speculari: una degiudaizzazione del coniuge ebreo oppure una qualche forma di ebraicizzazione di quello non ebreo. Per l’appunto, il fattore dirimente non è, come invece ancora c’era chi pensava soprattutto nell’Ottocento, l’assimilazione della minoranza ebraica dentro una cittadinanza comune, quella derivante dalla creazione dello Stato nazionale, destinata progressivamente a sbianchettare e poi ad assorbire le componenti minoritaria, bensì, in una sorta di logica capovolta, il contributo che questa – insieme ai valdesi – ha apportato alla costituzione di quella incerta e insondabile, ma anche indifferibile, condizione che definiamo con l’espressione «identità italiana».
In altre parole ancora, gli ebrei italiani sono incomprensibili e indecifrabili senza cogliere le peculiarità del loro contributo alla formazione dell’Unità del Paese e la loro partecipazione a tutte le sue grandi vicende, non da ultima la milizia nelle file della Resistenza tra il 1943 e il 1945, con almeno un migliaio di elementi che furono partecipi attivi. Se ne capiscono quindi le interne dinamiche soprattutto se si cala da subito la storia degli ebrei italiani dentro quella della società di appartenenza: vi è come un’adesione sorprendente, del tutto eccentrica rispetto alla persistente minorità, invece più accentuata, che si manifesta in paesi a maggioranza protestanti e cristiano ortodossi, per non rifarsi alle vicende di quelli musulmani dell’Africa mediterranea. Al medesimo tempo, tuttavia, quell‘ebraismo italiano, che è stato definito più volte con un’aggettivazione che implica tutto e fors’anche troppo poco, ossia «tradizionalista», è il prodotto di lunghissima durata dello stratificarsi di una pluralità di fattori, tra i quali vanno ricordati il bimillenario insediamento giudaico nella Penisola; la sua ibridazione con i flussi immigratori, prima mediterranei poi europei; l’incontro, il confronto e a volte i conflitti tra abitudini, culti e culture semitiche tra di loro anche molto differenti, quanto meno in origine; la propensione a proiettare una parte di sé dalle «nazioni ebraiche» su base territoriale (più o meno assimilabili, tuttavia con grandi forzature, alle attuali comunità) alla costruzione di una Nazione unitaria, italiana, di cui gli ebrei si sentirono comunque da subito parte integrante. All’interno di questi ed altri processi collettivi si è quindi costruita l’autocoscienza ebraica, i modi di intendersi e di interpretarsi nel corso del tempo, fino ad oggi. Non si spiegherebbe altrimenti la ferita mai del tutto suturata che la legislazione antisemitica ha introdotto nel corpo della società italiana, colpendo non solo i suoi destinatari diretti, gli ebrei per l’appunto, ma anche il resto della comunità nazionale. L’unitarietà degli uni con l’altra veniva infatti spezzata da un fascismo incapace di capire gli effetti di lungo periodo che le leggi razziste del 1938 innescavano, destinati a ricadere non solo sulle vittime predestinate ma anche sul regime medesimo, nel momento in cui le sue fortune, con una guerra disastrosa, iniziarono a declinare drasticamente.
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Il fuoco dell’identità ebraica italiana in età contemporanea, al netto dei successivi innesti derivanti dalle immigrazioni – soprattutto sefardite – dal Mediterraneo postbellico, è strettamente legata all’età risorgimentale e a quelle postunitaria, fino al regime fascista negli anni del suo maggiore fulgore. Si può ben parlare, al riguardo, di una “nazionalizzazione degli ebrei”, ossia di una fortissima identificazione con i processi e i percorsi di costruzione di un Paese fortemente disomogeneo, perennemente in cantiere. Un esempio a riscontro in tale senso è la partecipazione di una parte delle componenti più politicizzate dell’ebraismo ai movimenti di opposizione al mussolinismo come «Giustizia e libertà». In un moto di reciprocità inversa, che conferma però l’assunto d’origine, può essere quindi letta anche la sostanziale acquiescenza del resto della componente ebraica al fascismo, laddove a segnare il carattere di un’adesione – ovvero più spesso di una passiva accettazione – concorreva proprio il grado di maggiore o minore intensità che veniva attribuito al nesso che il regime cercava di istituire tra sé e l’«italianità». Una soluzione semplice per racchiudere la complessità di queste dinamiche è il richiamarsi alla «secolarizzazione» della minoranza come al suo tratto saliente. L’espressione indica il transito del potere di legittimazione dall’autorità religiosa a quella politica, accordandosi ad un più generale fenomeno di emancipazione individuale. Senz’altro questo aspetto è rilevante nelle dinamiche dell’ebraismo italiano ma di certo non ne risolve la molteplicità. Peraltro, secolarizzazione e laicizzazione sono fenomeni e fermenti che attraversano tutto l’Ottocento e il Novecento italiani, riguardando l’intero Paese nel suo rapporto con la religione come organizzazione temporale nel suo insieme, quindi, in quanto organismo di potere.
Come è stato sottolineato da autorevoli studiosi, è valsa la convinzione che si dovesse essere «ebrei in casa, cittadini al suo di fuori». Ma una tale separazione era impraticabile, almeno se intesa come una netta linea di distinzione tra una sfera rigorosamente circoscritta all’ambito domestico (e con esso alle relazioni infracomunitarie) e un contesto invece collettivo, dove le figure dominati – comunque prevalenti – erano quelle non ebraiche. Vuoi perché non esiste una dialettica tra «dentro» e «fuori» nell’ebraismo, una distinzione secca tra una cerchia personale e uno spazio generale, vuoi perché la costruzione della Nazione, nel nazionalismo medesimo, accoglie proprio aspetti significativi della dimensione comunitaria, parentale, famigliare e quindi anche personale. La stessa idea di patria implica l’assimilazione di un’idea di fratellanza, non più di «sangue» (la discendenza famigliare, matrilineare) ma di legge (la cittadinanza). E una tale condizione, nello Stato unitario, viene sancita e sanzionata non solo dalla fedeltà alle istituzioni, prima monarchiche e poi repubblicane, ma anche dal vero e proprio sangue versato sui campi di battaglia, nel nome dell’Italia medesima. Di retorica ce n’è assai poca, se si pensa al contributo ebraico alla Prima guerra mondiale (un discorso che è valso per molte altre nazionalità: una parte degli ebrei palestinesi, membri dell’insediamento sionista creatosi dal 1880 in poi in quelle terre, si troveranno più volte, durante la Grande guerra del 1914-1918, a rispondere al richiamo nei ranghi dei rispettivi eserciti, per quindi combattere gli uni contro gli altri) e poi alla lotta di Liberazione intesa come rigenerazione collettiva nel nome di un’Italia diversa, antirazzista, libera e democratica. Il legame è profondo poiché decreta non solo il superamento della condizione di minorità (giuridica e sociale), per nulla associabile a quella di minoranza, ma anche poiché è vissuta come una naturale disposizione delle cose, un’evoluzione del processo storico in linea con le aspettative che erano andate maturando nel corso delle generazioni che si erano succedute dall’età dell’illuminismo e delle rivoluzioni borghesi in poi. Ovviamente non esiste un’unica linea di interpretazione di dinamiche intrinsecamente composite. Esiste semmai una tendenza di massima, sulla base della quale cercare un minimo comune denominatore. La territorialità, il grado d’istruzione, la posizione socioprofessionale, l’età ma anche le dimensioni delle comunità di appartenenza, il magistero esercitato dalle figure preminenti in esse, a partire dai rabbini, i rapporti con la società non ebraica, il grado di urbanizzazione del tessuto circostante, le relazioni economiche e così via erano fattori che poi intervenivano pesantemente nel rendere più o meno aderenti certe reazioni rispetto ai percorsi di identificazione con la «nazione italiana».
Non di meno, tanto più quando si ricostruisce il percorso collettivo di una minoranza nazionale, va considerato il fatto che il racconto di cosa (e di come) essa sia stata dipende molto dai resoconti di coloro che in essa hanno voce per darle forma e respiro. Fondamentale, soprattutto per quella storia della contemporaneità italiana che arriva fino agli anni del mussolinismo, è allora il lascito pubblicistico della stampa ebraica, con periodici come «L’Educatore Israelita», «Il Vessilio Israelitico», «L’Idea Sionista», «Il Corriere israelitico», «La Settimana Israelitica», «La Rivista Israelitica», «Israel». Si tratta di vettori di comunicazioni di immagini, nelle quali spesso è raffigurata l’autopercezioni di élite culturali ed intellettuali. Tuttavia, ad esse era connaturata una funzione pedagogica, che assumevano come vera e propria missione, in piena sintonia con l’azione della stessa stampa non ebraica. Poiché se si trattava di «fare gli italiani», l’ebraismo si assegnava da sé il compito di «rifare gli ebrei» in quanto «israeliti», figure di cittadinanza sospese tra un confessionalismo privatistico, un’educazione ai valori della comune nazione e la difficoltà oggettiva di non subire, proprio per queste ragioni, un’espropriazione dall’interno, uno svuotamento che sarebbe coinciso con l’assimilazione definitiva e la perdita di ogni residua specificità di gruppo. I temi del dibattito ruotavano quindi intorno al ruolo delle istituzioni ebraiche e delle autorità religiose, al rifiuto o comunque alla mitigazione degli effetti dei matrimoni misti, alla «rigenerazione» ebraica (una commistione di virtù pubbliche e di sacrifici individuali nel nome dell’interesse collettivo, laddove l’«ebreo» doveva essere di guida e di esempio anche per i non ebrei) ma anche all’esaltazione dei successi dei correligionari insieme ai continui inviti a condividere momenti di vita comunitaria, lottando soprattutto contro il secolarismo inteso come montante indifferenza nei riguardi della propria religiosità. Un tale viluppo si è poi riproposto dal secondo dopoguerra in poi, a seguito della durissima lotta contro il nazifascismo, della tragica mannaia della Shoah, spartiacque la cui decisività sul piano del discorso pubblico sarebbe stata intesa solo a distanza di diversi decenni dal loro concreto manifestarsi, comunque nel contesto del quadro repubblicano e costituzionale, con la forte partecipazione ebraica ai processi politici del Paese. Un ruolo all’interno di questo quadro generale, con l’inizio del Novecento e l’affermarsi progressivo di un nazionalismo sempre più esasperato – che recuperava le accuse di doppia lealtà (gli ebrei fedeli alla nazione ma soprattutto al proprio gruppo, come tali apolidi e diasporici di animo e di intenzioni) – viene svolto dal dibattito italiano sul sionismo poiché è in esso che ritornano, in quanto temi irrisolti per la loro intrinseca ambiguità di fondo, le parole d’ordine legate all’«appartenenza», all’«identità nazionale» ma anche alla «patria», al «popolo», alla «stirpe» e alla stessa nozione di «razza». Il sionismo italiano (definito come di carattere «filantropico») si rivelerà, alla resa dei conti, sostanzialmente marginale rispetto al più ampio dibattito in corso nell’ebraismo europeo. Tuttavia, con la sua impostazione di fondo – in parte assai poco nazionalista e molto universalista, in linea con il patrimonio risorgimentale (rigenerare la nazione ebraica per riformare l’umanità secondo criteri di giustizia e libertà), benché in esso coesistesssero posizioni invece molto più identitarie, come nel caso della «Settimana Israelitica» – diverrà uno dei vettori di costituzione di nuove reti sociali e culturali in un ebraismo altrimenti a quel punto acquiescente alla situazione data, al punto tale da rischiare la sua progressiva consunzione. Torneremo presto su questi passaggi che ci aiutano a meglio definire una fisionomia collettiva, a tutt’oggi presente nel Paese.