“Scritto a matita nel vagone piombato” trasporta il lettore al centro della scena, nel cuore dell’inferno
Ho pensato a lungo a quale poesia potesse essere adatta per la Giornata della memoria in cui si celebra, tra l’altro, il settantacinquesimo anniversario della liberazione di Auschwitz. Non è, tuttavia, la ricorrenza a rendere questa Giornata della memoria particolarmente delicata e rilevante.
Essa, infatti, apre l’anno 2020, collocandosi dopo una serie di fatti vergognosi verificatisi pressoché in ogni ambito sociale del nostro Paese, che ha reso necessaria l’istituzione di una commissione contro l’antisemitismo. Per questa ragione alla fine la mia scelta è caduta su “Scritto a matita nel vagone piombato”, una delle più celebri liriche di Dan Pagis. E non avrebbe potuto essere altrimenti. Questo pugno di versi, infatti, non solo scaturisce dalla tragica esperienza di un sopravvissuto, costituendo una preziosa testimonianza degli eventi, ma si pone come un un monito per le generazioni a venire. Nella speranza che queste ultime siano pronte ad accoglierlo. Procediamo però con ordine, ricordando brevemente la vicenda biografica di Dan Pagis.
Nato nel 1930 a Rădăuţi in Bucovina, nell’attuale Romania, Pagis rimase orfano di madre a pochi anni d’età, crescendo quindi con i nonni materni, mentre il padre si trovava già nella Palestina Mandataria nel tentativo di preparare una sistemazione alla famiglia. Nel 1941 fu deportato in un campo di concentramento della Transnistria insieme alla maggior parte della popolazione ebraica della sua città natale. Sopravvissuto, arrivò in Terra d’Israele nel 1946, dove divenne uno dei principali studiosi di poesia ebraica medievale, oltre che uno stimato poeta.
Una parte consistente della sua opera poetica è dedicata all’elaborazione dell’esperienza della Shoah. Un approccio che si traduce in un uso potente del sarcasmo, che in alcuni casi arriva a sfiorare il grottesco. Frutto della sua produzione più matura, “Scritto a matita nel vagone piombato” è, invece, una poesia semplice, scarna, priva di ogni orpello stilistico, addirittura incompiuta, eppure proprio per questo dotata di un’eloquenza straordinaria, come scrisse a suo tempo Massimo Giuliani.
Pagis trasporta, infatti, il lettore al centro della scena, coinvolgendolo in maniera diretta. Non si tratta, cioè, di una voce “mediata”, bensì proviene dal cuore dell’inferno, nello specifico da un vagone piombato, dov’è rinchiusa parte della famiglia biblica “primordiale”, nello specifico Eva e Abele, sebbene siano citati anche Caino e Adamo. La presenza di Abele potrebbe anche sembrarci ovvia, in quanto archetipo della vittima della violenza umana, ma forse non quella di Eva. Tuttavia, nel suo evocare le origini, Pagis non desidera alludere soltanto alla tragedia del popolo ebraico, di per sé implicita nel riferimento. Ciò che più sembra mettere in luce è la tragedia dell’intero genere umano. Se è vero che chi uccide un uomo uccide il mondo, Pagis si spinge ancora oltre, ammonendoci che chi alza la mano contro l’altro, soprattutto così barbaramente com’è avvenuto durante le persecuzioni nazifasciste, distrugge prima di tutto se stesso, il proprio passato e il proprio futuro, qui incarnati nel principio femminile di colei che dona la vita, Eva-Havvah. Non a caso nel testo ebraico, Caino, l’omicida, è definito ben-adam, “figlio di Adamo” ma anche “nato da uomo, essere umano”. E nella frase incompiuta di Eva risiede non soltanto la fine tragica di chi è ferocemente sterminato, ma soprattutto il dramma di un’umanità che ancora stenta a riconoscersi nel volto dell’altro.
Scritto a matita nel vagone piombato
Qui, in questo convoglio
ci sono io Eva
con Abele mio figlio.
Se vedete il mio figlio maggiore
Caino figlio di Adamo
ditegli che io
Sara Ferrari insegna Lingua e Cultura Ebraica presso l’Università degli Studi di Milano ed ebraico biblico presso il Centro Culturale Protestante della stessa città. Si occupa di letteratura ebraica moderna e contemporanea, principalmente di poesia, con alcune incursioni in ambito cinematografico. Tra le sue pubblicazioni: Forte come la morte è l’amore. Tremila anni di poesia d’amore ebraica (Salomone Belforte Editore, 2007); La notte tace. La Shoah nella poesia ebraica (Salomone Belforte Editore, 2010), Poeti e poesie della Bibbia (Claudiana editrice, 2018). Ha tradotto e curato le edizioni italiane di Yehuda Amichai, Nel giardino pubblico (A Oriente!, 2008) e Uri Orlev, Poesie scritte a tredici anni a Bergen-Belsen (Editrice La Giuntina, 2013).
Per me non ci sono parole , tranne una : perchè ?