Hebraica Nizozot/Scintille
Quale libertà dall’Egitto? Le Parashot Vaerà e Bò

Essere liberi, ovvero essere educati. Analisi di un intreccio squisitamente umano per abbracciare il divino

Nizozot/Scintille è la rubrica di Massimo Giuliani. Con questo primo contributo inauguriamo un appuntamento quindicinale con il pensiero ebraico. Ma attenzione: si procede, appunto, per “scintille”… Buona lettura.

Le parashot Vaerà e Bò (Shemot/Es 6,2-13,16) raccontano gli ultimi drammatici eventi della permanenza dei figli di Israele in Egitto e le circostanze della loro liberazione, la cui memoria costituisce il senso e istituisce il precetto della festa di Pesach, della pasqua ebraica. È  una festa di riscatto e di redenzione, che giunge alla fine del lungo e doloroso confronto/scontro tra Dio e Faraone per interposti profeti – ossia Mosè, Aronne e Miriam da una parte, i maghi egizi dall’altra – ma che in realtà rappresenta solo l’inizio di un percorso, non meno lungo e fatico, del nascente ‘am Israel (il popolo di Israele), verso la vera libertà: l’accettazione della Torà al Sinai e la conquista della terra in cui vivere come ‘am chofshi, come ‘popolo libero’. Non c’è maestro, nella storia del pensiero ebraico, che non si sia soffermato a ragionare sul senso di quella liberazione e di tale libertà, a partire dalle parole divine rivolte a Faraone: “Lascia andare il mio popolo, perché mi presti culto” (Shemot/Es 10,3).

Un non dimenticato rabbino milanese, Elia Kopciowski (1921-2002) z”l, commenta: “I figli di Israele compresero che finalmente avrebbe avuto inizio la loro esistenza di popolo libero. La vita reale in effetti comincia solo con l’emancipazione, con la libertà di scegliere in che modo usare la propria libertà”. Ma subito si chiede cosa debba intendersi per libertà, concetto fondamentale per definire razionalmente un essere umano ma che sta alla base anche del diritto all’auto-determinazione dei popoli e alla tutela delle loro culture. Spiega infatti rav Kopciowski: “I figli di Israele avevano ottenuto, con l’aiuto dell’Eterno, la libertà; ma vi sono due tipi di libertà: quella del corpo, libertà materiale, e quella spirituale. La prima è paragonabile alla libertà della bestia nella foresta o del selvaggio nel deserto: non ha né forza né durata, qualsiasi evento può spezzarla o annientarla. La vera libertà è quella morale: l’uomo e il popolo che l’abbia veramente conquistata è libero in eterno e nessuna potenza brutale, nessuna catena della tirannide potranno farne di nuovo uno schiavo”. E tuttavia, questa libertà non è certo una forma di anarchia.

Un lettore attento del libro dell’Esodo come il giovane Hegel – il maggior filosofo europeo del XIX secolo, pur pieno di pregiudizio antiebraico – nei sui Scritti giovanili aveva notato che Mosè “il liberatore del suo popolo fu anche il suo legislatore: ciò non poteva significare altro se non che colui che lo aveva liberato da un giogo gliene aveva imposto un altro”. Osservazione esatta, benché capziosa. Tutta la tradizione rabbinica chiama la Torà ‘ol malkhut shammajim, “giogo del regno dei cieli”, metafora oggi difficile da spiegare ma assai chiara in un mondo ad economia agricola. In effetti Dio intende liberare Israele dalla ‘casa di schiavitù’ dell’Egitto ma per farne il proprio servo: “Perché mi presti culto”. In ebraico il termine ‘avodà significa ad un tempo culto, lavoro, servizio e schiavitù. Il senso della liberazione di Pesach non è solo libertà-da, è soprattutto libertà-per: per servire il Signore abbracciando la sua Torà.
Alla capziosità di Hegel sembra rispondere proprio rav Kopciowski là dove afferma che “la vera libertà dell’uomo consiste nella scelta della legge a cui sottomettersi. Chi cede alla tentazione di proclamare la propria assoluta libertà completamente svincolata dall’umano viver civile finisce per soccombere alle proprie passioni e per diventare loro schiavo. Una schiavitù assai più dura e umiliante di quella richiesta dal volere divino. Questa situazione è ben descritta dalla massina: zadiqim libbam bi-rshutam u-rsha‘im bi-rishut libbam ossia ‘i giusti hanno il cuore sotto il proprio dominio mentre i malvagi sono sotto il dominio del proprio cuore’ (Bereshit rabbà 34)”. Il politologo americano Michael Walzer, nel suo saggio Esodo e rivoluzione, piccolo classico di filosofia politica, ha scritto: “Come esiste una forma di libertà anche nella schiavitù [e molti ebrei la rimpiansero ricordandosi con nostalgia dell’Egitto], così esiste una schiavitù anche nella libertà: la schiavitù della legge, del dovere e della responsabilità. La vera libertà, agli occhi dei rabbini, consiste nell’essere servi di Dio (…) Mosè non diede ai figli di Israele una vita senza regole ma piuttosto un modo di vita le cui regole potessero essere, come avvenne di fatto, accettate liberamente”.

Leggi anche: Pesach, un racconto per bambini

A Hegel può essere data un’altra e ancor più profonda risposta, che viene dai commenti a queste parashot del Rebbe di Gur Yehudà Arie Lieb (1847-1905) noto come lo Sfat Emet, il quale legge nelle parole di Faraone un sarcastico ammonimento a guardarsi dal caricare un tale giogo, cioè la legge del Signore, sui bambini: essendo un giogo assai esigente, ne potrebbero soffrire… Proprio una preoccupazione degna di uno sterminatore di bambini ebrei! Per timore delle punizioni divine, contenute come minacce nella Torà, sarebbe meglio non portare i bambini nel deserto, avrebbe raccomandato Faraone. Invece Mosè portò con gli adulti maschi nel deserto anche donne, bambini e bestiame, anzi soprattutto i bambini, affinché – spiega lo Sfat Emet – pur non avendo halakhicamente obblighi, essi venissero educati alla prassi delle mitzwot “in modo che il bambino sia abituato alla santità e ciò sia di sprone e di preparazione a una vita di mitzwot”. L’educazione, quella che diamo ai bambini e a quanti vogliono fare ghiur, si sta dicendo qui, è la strada che trasforma la servitù del Signore (l’osservanza della Torà) in vera libertà. In Egitto eravamo tutti gherim, che si può tradurre ‘stranieri’ ma anche ‘convertiti’ o ‘educandi’ coloro che hanno fatto un percorso di ghiur.

Leggi anche: Il gher, lo straniero nella Torah

Del resto, da dove viene la parola ‘educazione’ se non dal latino e-ducere, portar fuori, proprio come il greco ex-odus, la via che porta fuori, verso la libertà di chi sa prendersi le proprie responsabilità. Pesach: una festa da adulti ma pensata per educare e far crescere nella libertà e nella responsabilità i più piccoli: le-dor va-dor.

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.