Cultura
Israele e Palestina: l’elaborazione culturale del conflitto

Letteratura, cinema e serie tv. Una carrellata di libri da leggere e film da vedere (anche a episodi) mentre si discute del piano Trump

Il “Piano del secolo”, l’ardita proposta di soluzione del conflitto israelo-palestinese lanciata da  Donald Trump, ha riportato il focus dell’attenzione mediatica sugli aspetti fondamentali della questione, riaprendo ferite mai sanate e imponendo nuove e doverose considerazioni, probabilmente di carattere definitivo. Se siamo ancora in attesa di vedere le effettive conseguenze del disegno del presidente americano, da parte sua, Israele non ha mai cessato di elaborare la situazione e le proprie posizioni al riguardo, soprattutto attraverso la lente della produzione letteraria e culturale. Basti pensare che la Guerra d’Indipendenza era a malapena conclusa quando, nel 1949, S.Yizhar pubblicò il romanzo breve Khirbet Khizeh (“La rabbia del vento”, Einaudi 2005), potente testimonianza di auto-analisi sionista sul controverso “Piano Dalet” e sull’evacuazione di un villaggio arabo da parte dell’esercito israeliano. Da allora per più di sessant’anni la letteratura israeliana ci ha fornito un numero sempre maggiore di testi capaci di indurci alla riflessione storica ed etica, oltre che di intrattenerci con pagine di rara bellezza. Tentare di stilare un elenco di queste opere è un’impresa davvero titanica, tuttavia vale la pena di ricordare alcuni titoli, dagli albori rappresentati da Michael mio, di Amos Oz, fino alla maturità de L’amante di A.B. Yehoshua; dalle anticipazioni della prima
intifada de Il sorriso dell’agnello, di David Grossman, fino al timore della catastrofe imminente di Parti umane, di Orly Castel-Bloom. In alcune opere il nemico ci appare vicino nella sua umanità, come in La tua storia, la mia storia, di Assaf Gavron o un’entità sconosciuta e terrificante, ad esempio in La pazienza della pietra di Sarah Shilo. Notiamo, però, che di recente il conflitto israelo-palestinese si trova di rado al centro della scena. Al contrario, i personaggi dei romanzi israeliani pubblicati negli ultimi due anni sembrano piuttosto concentrati su problematiche di genere differente. Ciò non significa, ovviamente, che la situazione storico-politica abbia smesso di
interessare gli scrittori israeliani, al contrario. Dopo decenni di scontri feroci, guerre e fallimenti, il conflitto si è talmente radicato nella quotidianità israeliana, da rappresentare lo scenario naturale sullo sfondo del quale i personaggi si muovono, vivono, amano. Spesso, il conflitto è descritto come il punto di arrivo per un’evoluzione personale, lo scopo della trasformazione di una vita intera. E l’ultimo travolgente romanzo di A.B. Yehoshua, Il tunnel, ce lo mostra perfettamente.

Nel corso dei decenni anche il cinema israeliano ha saputo raccontare molto bene il conflitto, quando però ha saputo affrancarsi dagli stereotipi etnici e da alcuni happy ending forzati in salsa mediorientale. Molte di queste pellicole grondano sudore e sangue, ad esempio Me: ahorei Ha-soragim (1984), geniale opera dei fratelli Barbash ambientata in un carcere di massima sicurezza israeliano, Gmar gaviaʻ di Eran Riklis o Ha-hesder (2000) di Joseph Cedar (regista anche dell’acclamato Beaufort). Tuttavia, tra gli strumenti più efficaci che il cinema israeliano abbia utilizzato per analizzare il conflitto ci sono l’ironia e l’assurdo, i quali sono talvolta esasperati fino all’ennesima potenza. Fino a trasformarsi esattamente nel loro contrario. A questo proposito, Eran Riklis ha tracciato sapientemente il cammino con The Syrian bride (2004) e Lemon tree (2008), sovrapponendo questi elementi a un umanesimo essenziale, destinato a non venire mai meno. Inquesto modo, coinvolti in un inverosimile quanto crudele gioco di poteri, i nemici si scoprono vicini, simili e capaci di azione. Su queste stesse si muove uno dei film sul conflitto più interessanti degli ultimi anni, Tel Aviv on fire, diretto da Sameh Zoabi, un arabo israeliano trapiantato negli Stat Uniti. Il film è il risultato di una collaborazione franco-israeliana-lussemburghese e ha ottenuto un ottimo successo, tanto in Israele quanto all’estero. Tel Aviv on fire è la dimostrazione che il tema del conflitto possa essere affrontato con leggerezza, seppur in modo penetrante, privo di vittimismi da entrambe le parti.  Resta da rispondere a una domanda essenziale? A quale genere cinematografico appartiene la pellicola? Di certo non è un dramma, ma neppure una commedia. E l’evidente comicità ‒ intessuta di dialoghi e situazioni talmente impossibili da far invidia persino a Woody Allen ‒ è comunque costretta scontrarsi con la durezza dell’ambiente circostante.

E le serie tv, dove vogliamo collocarle? Ultime arrivate rispetto a cinema e letteratura, per ovvie motivazioni, hanno recuperato in fretta il tempo perduto. Senza dubbio il prodotto di maggiore interesse al momento è Ha-neʻarim (“Our boys”), una coproduzione israelo-statunitense trasmessa nel 2019 sui canali HBO negli USA e sulle piattaforme HOT e yes nello Stato ebraico. La serie vanta un discreto numero di collaborazioni illustri (anche qui c’è il raffinato zampino di Joseh Cedar) e cavalca l’onda di notevole interesse suscitato dal genere del docu-drama. Ha-neʻarim, infatti, mira a ricostruire un episodio tremendo della storia più recente del conflitto israelo-palestinese, vale a dire i reciproci rapimenti (e gli assassinii) di alcuni giovani uomini, che hanno funestato l’estate del 2014, determinando l’inasprimento della situazione nella Striscia di Gaza. In realtà, le dieci puntate di Ha-neʻarim si concentrano soltanto sul sequestro e sull’omicidio del ragazzo palestinese, illustrandone le conseguenze sulla famiglia della vittima e su una società lacerata. Inutile dire che la serie ha suscitato numerose polemiche, tanto che il primo ministro Netanyahu l’ha condannata duramente, definendolaantisemita e diffamatoria”. Voci discordanti, invece, ne hanno lodato l’audacia, giacché decidere di avvicinarsi a una vicenda simile è di per sé un atto di grande coraggio, artistico e morale. Inoltre, diversi critici hanno voluto ricordare agli
spettatori scandalizzati che il ruolo della cultura non è quello di rassicurare il pubblico, ma di scuoterlo nel profondo, spingendolo all’analisi di sé. È difficile contrastare un’affermazione così limpida e veritiera, tanto più che la cultura israeliana, pur essendo relativamente giovane, vanta già una lunga tradizione al riguardo. Qualunque sia la vostra posizione, se esiste una serie da non perdere o da cercare online, è proprio questa, in attesa che le più note piattaforme decidano di accaparrarsela.

Sara Ferrari
Collaboratrice

Sara Ferrari insegna Lingua e Cultura Ebraica presso l’Università degli Studi di Milano ed ebraico biblico presso il Centro Culturale Protestante della stessa città. Si occupa di letteratura ebraica moderna e contemporanea, principalmente di poesia, con alcune incursioni in ambito cinematografico. Tra le sue pubblicazioni: Forte come la morte è l’amore. Tremila anni di poesia d’amore ebraica (Salomone Belforte Editore, 2007); La notte tace. La Shoah nella poesia ebraica (Salomone Belforte Editore, 2010), Poeti e poesie della Bibbia (Claudiana editrice, 2018). Ha tradotto e curato le edizioni italiane di Yehuda Amichai, Nel giardino pubblico (A Oriente!, 2008) e Uri Orlev, Poesie scritte a tredici anni a Bergen-Belsen (Editrice La Giuntina, 2013).

 


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