Letture possibili del significato di questa festività
Tutt’altro che facile leggere la meghillat Esther. Non nel senso letterale del termine, e infatti questa è la mitzwà fondamentale della festa di Purim: ascoltare/leggere – in ebraico, possibilmente due volte – la storia di cui sono protagonisti ebrei e persiani in Shushan: Achashverosh (il re inaffidabile) e Aman (il perfido antisemita), Esther (la regina ebrea che cela la propria identità fino all’ultimo) e Mordecai (l’ebreo saggio e devoto). Il problema è come interpretarla: è un grande midrash sulla vita ebraica in diaspora o è una storia in senso storico? Richiede fede in un miracolo, e una attiva vita di pietà, oppure vuole soltanto allertare le nostre risorse d’astuzia, quell’intelligenza delle situazioni necessaria al fine di scampare i pericoli? Cosa insegnano i maestri su questa festività, solitamente classificata come ‘minore’ ma della quale la tradizione dice che “tutte le feste cesseranno [in epoca messianica?], ma i giorni di Purim non cesseranno” (così nel Talmud Yerushalmi, Meghillà 1,5 e nel Midrash Tehillim 9,2)?
Durante una recente lezione di pensiero ebraico mi è stata fatta una domanda: possiamo leggere la Meghillat Esther come un documento che provi l’esistenza di una teleologia ebraica, vale a dire la certezza per la quale tutto ciò che avviene, almeno a Israele, avviene per un fine ben preciso, per uno scopo superiore voluto e guidato da Qadosh Barukh Hu? Per chi vede nella storia una tale teleologia – ovviamente di natura religiosa – nulla avviene a caso, le cause e le concause degli eventi sono predeterminate e il bene, in questo caso la sopravvivenza del popolo ebraico, prevale sempre. La storia di Purim sembra suffragare questa lettura teleologica, senza nulla togliere al senso tragico che aleggia sul decreto iniquo del perfido Aman e del credulone Achashverosh. Certo, colpisce il ‘colpo di teatro’ del capovolgimento delle sorti, o del ‘gioco delle parti’ di pirandelliana memoria, sì che il lutto si trasforma in gioia, una irrazionale volontà di morte diviene il sigillo della vita futura del popolo ebraico. Ma tutti intuiscono che la morale di questa complicata storia, per nulla lineare e dai dettagli complessi, non può ridursi al proverbio popolare: chi la fa, l’aspetti. Occorre piuttosto soppesare il senso delle libere azioni dei protagonisti, per evitare che la fede nella Provvidenza divina – qui tanto più all’opera quanto più nascosta, in absentia persino del Nome – diventi una forma di determinismo storico, che annulla il libero arbitrio e azzera l’autonomia del mondo qua talis, che ha sue leggi tra cui il calcolo delle probabilità e il caso (la dea fortuna). Sia l’autonomia del mondo sia la libertà umana sono valori ebraici a cui la tradizione biblico-rabbinica non può rinunciare. Leggere in prospettiva teleologica, ad esempio, gli eventi della Shoah è inquietante, per molte ragioni. Ma torniamo alla meghillat Esther, dove, comunque, si narra di una shoah mancata per poco.
Uno dei dettagli strani e di difficile comprensione che accompagnano la celebrazione di questa festa è la ‘raccomandazione’ attribuita a Ravà (cfr. Talmud Babli, Meghillà 7b): a Purim una persona dovrebbe ubriacarsi ‘ad delò iada‘ ben arur Aman le-varukh Mordecai, ossia “fino a non distinguere tra ‘maledire Aman’ e ‘benedire Mordecai’”. Questo insegnamento di Ravà è accompagnato da una curiosa e non meno strana aggadà, che mostra come sin dall’inizio l’esegesi di tale insegnamento fosse tutt’altro che facile. Dice il testo: “Rabbà e Rabbi Zerà stavano celebrando Purim insieme e si ubriacarono. Rabbà si alzò e uccise Rabbi Zerà. L’indomani Rabbà pregò per lui e lo risuscitò. L’anno seguente Rabbà gli disse: ‘Su, andiamo a celebrare Purim insieme!’. Ma Rabbi Zetà gli rispose: ‘I miracoli non accadono ogni giorno!’”. Ubriacarsi non è un atto dignitoso, anzi è foriero di molti pericoli. Il vino aveva già tradito Noach/Noè, che può ben dirsi l’inventore della viticultura nella storia; e aveva tradito Lot, che da ubriaco commise incesto. Il vino è sempre stato presente nei culti pagani antichi; serviva a facilitare l’estasi ed entrare in trance. Nondimeno è sempre stato apprezzato e usato anche nel giudaismo per celebrare le feste: necessario per il qiddush e usato a Pesach anche come simbolo delle dieci piaghe; il vino poi “rallegra il cuore dell’uomo” e non è vera festa senza vino. L’enfasi sul bere a Purim, spiega la maggior parte dei maestri, è legata al fatto che gli eventi narrati dalla meghillà avvengono durante banchetti dove tutti bevono vino (così la pensa, ad esempio, Rabbi David Abudarham, XIV secolo) ed è quindi un modo per immedesimarsi nella vicenda. Ma quanto ubriachi si possa e/o si debba essere a Purim, e cosa voglia dire “non distinguere” o “non conoscere tra” Aman e Mordecai, è difficile dire. Campo aperto all’interpretazione.
Non posso non registrare qui un daver acher che da molti anni, ad ogni Purim, mi fa pensare. E’ quanto disse una volta il rabbino riformato e autorevole filosofo Emil L. Fackenheim (nel volume Leggere la Bibbia dopo la Shoah): dopo che Hitler ha perseguitato gli ebrei non per qualcosa che hanno fatto ma per il solo aver avuto genitori e nonni ebrei, possiamo accettare che i dieci figli di Aman – di cui la meghillà dà i nomi propri, per identificarli come persone – muoiano impiccati per la colpa del loro malvagio genitore? Se qui ‘i figli’ pagano per colpe commesse dal ‘padre’, non viene contraddetta la norma di Devarim/Dt 24,16 (“non si metteranno a morte i figli per la colpa dei padri”)? La condanna del perfido Aman può essere giustificata come middà keneghed middà, dunque come un atto di giustizia, ma la condanna dei suoi figli che erano estranei al complotto antiebraico del padre come la giustifichiamo moralmente oggi? Domanda legittima, che sfida una lettura ingenua e meramente nazionalistica della storia, che tuttavia celebra proprio la sopravvivenza di Israele. Sempre Fackenheim ebbe a dire che i cristiani possono tranquillamente fare a meno di questa storia biblica – infatti quando mai la leggono o la commentano nelle loro prediche? – ma gli ebrei non possono assolutamente farne a meno: “Nel libro biblico di Esther – afferma il filosofo tedesco-canadese-israeliano – la salvezza è rappresentata dal coraggio e della fedeltà di Mordecai e di Esther, assistiti dalla fortuna… Che un ebreo oggi si identifichi tanto con il racconto di Esther quanto con la preghiera di Purim è evidente dal fatto che i bambini ebrei, in Israele, ne hanno fatto una festa pubblica, da celebrare in strada, vestiti come personaggi della meghillà…”.
Festa della sopravvivenza ebraica, o meglio, come ha suggerito Rav Joseph Soloveitchik, giorno in cui ci si ricorda quanto vulnerabile siano ogni ebreo, ogni comunità ebraica e tutto il popolo d’Israele dinanzi a quell’odio irrazionale che chiamiamo antisemitismo. In effetti la meghillà è, anche, una desolante storia di odio antiebraico. “La mera esistenza degli ebrei – dice rav Soloveitchik – irrita Amaleq [e Aman è, per la tradizione, un discendente di Amaleq] e il suo odio può repentinamente e violentemente erompere e tradursi in sterminio. Perché succede questo? Non esiste una risposta. E’ una situazione assurda, che ha accompagnato l’ebreo fin dagli albori della sua storia. I nostri maestri suggeriscono che ciò è legato, in qualche modo, al singolare destino religioso che ci è stato assegnato al monte Sinai (cfr. TB Shabbat 89b)”. E siamo così tornati alla domanda sul ‘telos’, sul fine e il senso di questa festa: occorre rallegrarsi e bere per celebrare lo scampato pericolo? Certo, ma fino a che punto? E soprattutto fino a quando? A Purim, da notare, non si canta l’intero Hallel. Purim è la festa di una redenzione, certamente. Ma non ancora della Redenzione… E non sarà Redenzione fino a quando tutti i nipoti di Aman non siederanno a Benè Braq a studiare Torà. Anche questa è una lettura della meghillà secondo i nostri maestri.
Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma