Da Hallelujah a Chelsea Hotel #2, dedicato leggendario incontro con Janis Joplin, fino a I’m Your Man e You want it darker
“Comporre una canzone è come fare la corte a una donna: molto spesso è una scocciatura”. Parola di Leonard Cohen, impareggiabile aedo dell’amore malinconico, che nelle sue folgoranti interviste rivelava tutto il suo sottile umorismo jewish.
L’artista canadese si definiva, con la modestia che solo i grandi hanno, un “poeta minore”, ma è innegabile che alcune sue canzoni rientrino di diritto tra le migliori poesie del Novecento. Quale di molti anni fa, ma anche le ultime contenute in You want it Darker (2016) e Thanks for the dance, l’album postumo che contiene, tra le altre, Happens to the heart e Puppets.
Scrittore fino a 33 anni, non riuscendo a “garantirsi una vita decente, forse neanche indecente”, Cohen, dopo aver pubblicato la sua prima raccolte di poesie, Flowers for Hitler (1964) e i romanzi The Favourite Game (1963) e Beautiful Losers (1966), si reinventò come improbabile pop star nel 1967, quando uscì il suo primo disco.
“La sua immagine ascetica era in totale controtendenza con gli eccessi dionisiaci associati con il rock and roll“, ha scritto il New York Times che cita anche la definizione che gli fu affibbiata di “maestro della disperazione erotica”.
The Songs of Leonard Cohen vendette a sorpresa oltre 100.000 copie, il suo miglior risultato commerciale fino al 1988.
La critica gridò al miracolo, assegnandogli il ruolo di rivale canadese di Bob Dylan, con il quale condivideva la scrittura raffinata e una misoginia neanche troppo velata.
Cohen traspose i suoi versi e la sua inquietudine su accordi minori, con una produzione scarna che costringeva gli ascoltatori a concentrarsi sulle parole delle canzoni e sulla sua interpretazione agrodolce più che sui suoni.
Indimenticabili la sua interpretazione di Suzanne, una hit di Judy Collins pubblicata nel 1966, intrisa di simbolismo religioso e di pathos, e So long, Marianne, ballad all’insegna dello struggimento e della solitudine, che si riferisce alla fine della storia con la sua musa norvegese, Marianne Ihlen, conosciuta sull’isola greca di Hydra, allora rifugio di scrittori, pittori e musicisti uniti da uno spirito libero e libertario.
Per una singolare coincidenza del destino, il cantautore ebbe due figli da un’altra Suzanne, che nulla c’entra con la Suzanne Verdal a cui è ispirata la canzone.
Ancora più malinconico e intimista dell’album di debutto, Songs from a room non ripeté nel 1969 il successo commerciale di The songs of Leonard Cohen, anche se era un album più coeso musicalmente ed emblematico della sua poetica.
Dieci canzoni in cui hanno un ruolo fondamentale i rapporti interpersonali, a eccezione di The partisan, un brano apertamente politico sulla Seconda guerra mondiale, che smonta il rapporto tra patriota e nazione.
The butcher è incentrato sul rapporto tra padre e figlio, mentre in Seems so long ago, Nancy, il cantautore gioca sulla promiscuità per avvalorare la sua misantropia, un topos dei primi album.
Indimenticabile anche Bird on the wire, anch’essa scritta durante la permanenza a Hydra. L’ispirazione venne dall’osservazione di alcuni uccellini che stazionavano sui cavi del telefono recentemente installati sull’isola. A tal proposito Cohen raccontò:”Inizio sempre i miei concerti con questa canzone. É stata cominciata in Grecia e terminata in un motel a Hollywood nel 1969 così come tante altre cose. Alcuni versi sono stati cambiati in Oregon. In qualche modo sembra che io non riesca mai a renderla perfetta”.
Chi ha ancora una ferita aperta sentimentale, dovrebbe accostarsi con cautela a Songs of love and hate del 1971, una delle opere più intense del cantautore, all’insegna del pop-folk, in cui il confine tra amore e odio non è mai stato così sottile.
L’amore è qui un vero e proprio campo di battaglia, che non fa prigionieri, tanto da chiamare la sua band di supporto The Army.
Emblematico, in questo senso, il capolavoro Your famous blue raincoat, una lettera risentita all’amico fedifrago che gli ha soffiato la fidanzata, che si conclude con il celeberrimo verso “Sincerly, L.Cohen“. Negli anni successivi, il cantautore ha messo in dubbio che il brano fosse autobiografico.
Come non citare, poi, la struggente Avalanche, in cui la chitarra acustica si amalgama alla perfezione con gli archi in crescendo, che colpirà anni dopo l’immaginario di Nick Cave.
Nel quarto album di Cohen, New Skin for the Old Ceremony del 1974, troviamo tre canzoni sublimi: Who by Fire, cantata in coppia con Janis Ian e ispirata ad una preghiera ebraica che viene recitata nel giorno dell’Espiazione, Take This Longing, dedicata all’androgina Nico e, naturalmente, Chelsea Hotel #2, che racconta il leggendario incontro ravvicinato con Janis Joplin nell’hotel dove gli artisti vivevano per lunghi periodi e dove poteva succedere di tutto.
La canzone più iconica di Cohen è sicuramente Hallelujah, contenuta nell’album Various Positions del 1984 e poi reinterpretata da 180 artisti (resta inarrivabile la versione di Jeff Buckley), che ha richiesto ben quattro anni di gestazione.
Cercando di spiegare il significato del brano, Cohen dichiarò: «Questo mondo è pieno di conflitti e pieno di cose che non possono essere unite ma ci sono momenti nei quali possiamo trascendere il sistema dualistico e riunirci e abbracciare tutto il disordine: questo è quello che io intendo per alleluia».
Un’ode emozionante alla vita e all’amore, con un tempo in 6/8 e composta nella tonalità di do maggiore, che si apre con una citazione di Davide, secondo re d’Israele, capace di calmare con l’arpa lo spirito malvagio sceso sul suo predecessore Saul, mentre la seconda strofa si riferisce all’innamoramento di Sansone con Dalila, che lo convinse a rivelarle il segreto della sua forza nei suoi capelli.
Il maggiore successo di vendite nella quasi cinquantennale carriera di Cohen è stato I’m your man del 1988, trascinato dall’eponima canzone, un inno di devozione che ogni donna vorrebbe ricevere in dedica, e dalla hit First we take Manhattan, sorretta da sorprendenti sintetizzatori e dalla batteria elettronica.
Oltre che nei suoni, la novità principale dell’album è l’umorismo tipicamente jewish che lo pervade, a partire dalla copertina in bianco e nero dove cui il cantautore, con gli occhiali da sole, mangia una banana.
Emblematica, in questo senso, è Everybody knows, in cui Cohen si prende beffe della rivoluzione sessuale del 1968 alla luce dei pericoli dell’Aids, che inducono a più miti consigli. La chiusura dell’album è affidata a Tower of song, la ciliegina sulla torta di un album straordinario
In una canzone del 1992, Anthem, Cohen canta: “C’è una crepa in tutte le cose / è il modo in cui la luce riesce a entrare”.
Una luce che, a tre anni e mezzo dalla sua morte, non si è ancora spenta.
Giornalista romano, ama la musica sopra ogni altra cosa e, in seconda battuta, scrivere. Autore di un libro su Aretha Franklin e di uno dedicato al Re del Pop, “Michael Jackson. La musica, il messaggio, l’eredità artistica”, in cui ha coniugato le sue due passioni, collabora con Joimag da Roma