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Giustizia sociale, inclusione e strategie contro l’odio

Intervista a Melissa Sonnino, formatrice e coordinatrice di progetti dell’organizzazione europea CEJI

C’è un posto nel cuore dell’Europa, dove si parla di inclusione. L’indirizzo è CEJI, Jewish Contribution to an Inclusive Europe, a Bruxelles. Ha un’anima ebraica, ma lo sguardo è rivolto a chiunque sia vittima di discriminazione o odio. Le sue armi sono quelle della conoscenza, da acquisire e da divulgare per debellare l’ingiustizia sociale. O per lo meno per saperla affrontare. Ne abbiamo parlato con Melissa Sonnino, da nove anni nel team di CEJI, coordinatrice di vari progetti europei e formatrice. Un po’ riduttiva forse come presentazione…
“Fresca di laurea, ero alla ricerca di un lavoro che fosse vicino alla mia formazione e ho conosciuto questa organizzazione per caso. Si è rivelato poi un matrimonio felice, in cui ci siamo scelti reciprocamente. Per me è stato un incontro illuminante perché riconciliava i miei conflitti interni, le diverse parti della mia identità. Sono ebrea, ho fatto soltanto le medie alla scuola ebraica, però ho sempre collaborato con organizzazioni ebraiche, inclusa una ricerca sui giovani ebrei italiani. Quello che ho trovato qui è un’identità ebraica forte ma con una visione più larga: l’obiettivo è combattere ogni forna di discriminazione e ingiustizia. Per dirla in termini ebraici, si guarda al Tikkun Olam, alla giustizia sociale”.

Che cosa significa inclusione?
“CEJI è stata pioniera di un concetto che ora va un po’ più di moda ma che ai tempi della sua fondazione era inconsueto, almeno in Europa. Più che un concetto, è un approccio, fondamentale nei nostri metodi di lavoro. E questo avviene nel momento in cui CEJI entra in contatto con l’Antidefamation League e decide di importare i suoi metodi e programmi per la formazione. La pedagogia diventa la chiave di tutto e ora siamo molto presenti nelle iniziative europee dedicate a questi argomenti”.

Il vostro obiettivo infatti è educare alla diversità. Cosa vuol dire e come si fa?
“Tutti i nostri corsi sono accomunati da una metodologia che si declina poi a seconda del target e dell’argomento. Ma l’approccio metodologio è sempre lo stesso, molto vicino a quello creado dell’Antidefamation League. Che ha un sistema interessante perché coinvolge in prima persona i singoli partecipanti. Si parte infatti da una riflessione su se stessi, sulla propria identità e sui filtri che applichiamo nel guardare gli altri. Quindi c’è un approfondimento sul tema in questione, per esempio se si parla di antisemitismo, forniamo ai partecipanti conoscenze sugli ebrei e sull’ebraismo e già queste spesso scardinano i pregiudizi. Quindi si procede al confronto per capire come gestire queste tematiche nelle classi, in un ambiente di lavoro o nelle varie altre situazioni di convivenza. Infine, si arriva alla social action per trovare cosa cambiare nelle aree della propria sfera di influenza. Ecco, allora per rispondere alla sua domanda, educare alla differenza significa saper riconoscere l’unicità di ogni individuo e saperla apprezzare“.

Un lavoro dunque principalmente su di sé.
“Sì, serve a combattere i propri personali pregiudizi. E quindi a gestire poi il problema nelle situazioni pubbliche. Il nostro corso principale ha avuto uan sovvenzione europea e molti insegnanti hanno partecipato proprio per imparare a affrontare classi multiculturali, dove è molto difficile per esempio parlare di Shoah. Noi europei diamo per scontato che quei fatti appartengano alla nostra storia, ma ci sono famiglie e ragazzi che hanno background molto diversi e non è facile per un insiegnante trovare il modo corretto di spiegare l’olocausto. Ma anche nelle pubbliche amministrazioni spesso c’è bisogno di acquisire questi strumenti, o negli ospedali. O nelle forze dell’ordine. Abbiamo fatto un lavoro importante in Italia, per esempio, con la Polizia, OSCE e OSCAD”.

Si è trattato di un corso?
“Esattamente. Io mi occupo in particolare di un programma di formazione online incentrato sui crimini e sui discorsi d’odio che si chiama Facing Facts. Abbiamo fatto il corso pilota (e speriamo di poterlo presto offrire online), dopo una lunga e approfondita ricerca che ha coinvolto anche altri stati. Il tema centrale è questo: cosa può fare un poliziotto per aiutare una vittima ed evitare che cada in una seconda discriminazione? Ogni forma d’odio ha le sue specificità, le proprie parole, ma occorre che le forze dell’ordine abbiano gli strumenti per capire e non discriminare a loro volta”.

A proposito di parole, cosa pensa della definizione di antisemitismo essa a punto dall’IHRA?
“Credo sia molto utile perché è uno strumento entro cui incasellare gli avvenimenti e catalogarli come crimini d’odio. Le faccio un esempio: se il poliziotto non ha gli strumenti per capire perché una persona si sta rivolgendo a lui per denunciare la presenza di una svastica su un muro, non può catalogare il fatto tra i crimini d’odio e la denuncia rimane nell’area della soggettività. Cosa che non deve assolutamente succedere. Avrei dovuto tenere una conferenza nei prossimi giorni proprio in un meeting sull’antisemitismo alla Commissione europea per evidenziare il problema dell’applicazione della definizione dell’IHRA: implica una serie di conoscenze per niente scontate. Chi la applica deve sapere cos’è il sionismo e quali significati ha lo stato di Israele, per esempio. Dunque ci vuole una collaborazione tra i governi e le comunità ebraiche costante”.

Una collaborazione anche interreligiosa?
“Assolutamente sì, fa parte del nostro metodo di lavoro: coinvolgere persone molto diverse per formazione e background su un tema comune. Seguendo poi i nostri metodi didattici si avvia un dialogo interreligioso, ma soprattutto interculturale molto interessante, che prevede un lavoro anche tra le diverse comunità. Proprio da poco abbiamo vinto un altro bando europeo che in qualche modo risponde alla sua domanda: vogliamo combattere l’odio attraverso la conoscenza. La cultura è l’arma contro l’intolleranza“.

 

 


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