Una lettura tra antropologia e psicanalisi
Sono numerose le culture del passato e del presente presso cui la circoncisione è uso praticato, previsto, talvolta prescritto. Nel Vicino Oriente antico era un’usanza diffusa ed è attestata almeno a partire da cinquemila anni fa in Egitto. Oggi sopravvive, come noto, presso le comunità ebraiche e musulmane, ma anche in quanto rimane di alcune società tribali. La circoncisione dei maschi costituiva una cerimonia di passaggio, e proprio per questo avveniva di solito in età puberale, finendo per costituire una prova di maturità e di coraggio per i giovani che le si sottoponevano. Il premio per il superamento della prova era il superamento della condizione di minorità e dipendenza dai genitori e l’ingresso nella società adulta. La normativa ebraica prevede invece che la circoncisione avvenga l’ottavo giorno dalla nascita di ogni bambino maschio, così come avviene per Isacco nel racconto di Genesi/Bereshit. Nel primo libro della Torà rimane comunque traccia anche di un’altra età per la circoncisione, i tredici anni del primo figlio di Abramo Ismaele. Tredici anni è l’età del bar mitzvà, la maggiore età religiosa che ancora oggi per gli ebrei segna l’ingresso a pieno titolo nella comunità con l’assunzione di doveri specifici: è possibile intravedere in essa un richiamo alla circoncisione del fratello di Isacco.
La tradizione ebraica considera la circoncisione, o milà, una regola di fondamentale importanza sulla scorta del passo di Genesi in cui Dio stringe con Abramo il patto che segna l’origine del popolo ebraico. “Sarò Dio a te”, annuncia il Signore a Abramo; a suggellare il patto, che varrà in perpetuo anche per le generazioni che seguiranno, vengono elencati i seguenti elementi:
Dio darà in uso ad Abramo e ai suoi discendenti la terra dove Abramo vive (in uso e non in possesso: la terra è e può essere solo del Signore).
Dio predice ad Abramo una discendenza numerosa e gli annuncia la nascita di un figlio.
Abramo, che ha novantanove anni, dovrà circoncidere sé e tutti i maschi della famiglia, tra cui il tredicenne Ismaele.
Abramo si chiamerà da questo momento Avraham; Sarai sua moglie diventerà Sarah; il figlio che nascerà avrà nome Isacco.
Judith Riemer e Gustav Dreyfuss, nel volume Abramo: l’uomo e il simbolo (Giuntina), rileggono la figura e la vicenda del primo dei padri d’Israele nell’ottica della psicanalisi della scuola di Jung. La circoncisione, secondo Jung, è una cerimonia in cui il sacrificio viene sostituito da un atto simbolico. Con essa “ci si disfa del desiderio istintivo o libido, per riacquistarlo in forma rinnovata. Attraverso il sacrificio ci si affranca dalla paura della morte”. Integrità e sacrificio sono concetti che si intrecciano. Nella normativa ebraica il comandamento della milà sembra contraddire apertamente un altro precetto, quello di non ledere e anzi preservare il proprio corpo. “Sii integro”, dice Dio ad Abramo poco prima di prescrivere la circoncisione. Poiché l’unica parte del corpo che può essere rimossa senza procurare mutilazione è il prepuzio maschile, secondo rav Alberto M. Somekh, soltanto dopo la milà l’uomo può considerarsi davvero integro. Se vogliamo tradurre la prospettiva ebraica in termini junghiani la circoncisione, attraverso l’eliminazione di una porzione di carne non necessaria, è indispensabile per raggiungere l’integrità spirituale, cioè l’integrazione simbolica di corpo e psiche. Il versamento di sangue (per la Torà contrassegno della vita) che la milà comporta simboleggia per Riemer e Dreyfuss il sacrificio spirituale. Il sacrificio che la circoncisione prevede è di conseguenza non solo fisico, ma anche psichico, e consente di andare oltre la semplice esistenza corporea, che l’uomo condivide con gli altri animali. In questo modo l’uomo ha la possibilità di diventare davvero uomo.
Leggi anche: Circoncisione tra attualità e pensiero ebraico
Il gesto di Abramo che circoncide se stesso e i maschi della propria famiglia, e che rivive alla nascita di ogni bambino ebreo, è anche l’emblema di una soggezione volontaria e perpetua alla divinità. Rappresenta inoltre una servitù completa, in ottica junghiana, perché riguarda l’uomo come unità di corpo e anima. Cosa non meno importante, è una subordinazione irrevocabile perché impressa sulla carne dei corpi. Abramo sceglie di obbedire al comando divino che ordina la circoncisione, i suoi figli e discendenti invece no: su questi secondi il segno della milà è indice dell’accordo di Abramo con Dio. La circoncisione è formalmente analoga, in questo senso, al foro nell’orecchio inflitto, secondo Deuteronomio/Devarim, allo schiavo che volontariamente sceglie di non venire affrancato: segno che non può essere cancellato e tramite cui lo status del genitore si trasmette ai figli.
La circoncisione, cerimonia diffusa in molte società e studiata dall’antropologia, come abbiamo cercato di chiarire segna il passaggio dall’infanzia all’età adulta. Allo stesso tempo, indica il passaggio dall’ambiente familiare, in cui il bambino è sottoposto all’autorità verticale dei genitori, a quello orizzontale della tribù. Per questo, secondo Riemer e Dreyfuss, la circoncisione ha poco a che vedere con l’evirazione simbolica e la violazione della completezza del corpo, molto invece con la posizione dell’uomo nei confronti dell’ambiente circostante. Circoncidere, che etimologicamente indica l’azione di tagliare intorno, significa distinguere l’uomo all’interno della creazione. In altre parole, è un gesto che risponde alla volontà di separare l’uomo, all’interno della natura, dal mondo animale, vegetale e minerale e stabilire un ordine normativo al quale lui solo deve sottostare. In questo gesto certamente innaturale e contrario al principio di piacere prende avvio, secondo la psicanalisi, il percorso che conduce alla piena formazione e configurazione della coscienza, un attributo che è soltanto umano. E coscienza significa anche educazione, autonomia, autocontrollo, riflessione.
Come abbiamo visto commentando il passo di Genesi, quando Dio prescrive ad Abramo la circoncisione decide nuovi nomi per il patriarca e sua moglie e ordina di chiamare Isacco il bambino che nascerà. Non a caso, la tradizione ebraica prevede che il nome sia dato al nuovo nato proprio l’ottavo giorno durante la cerimonia della milà. La circoncisione, insomma, indica per Abramo e per ogni bambino ebreo una seconda nascita, una nascita che non segue più, come la prima, le leggi della natura ma in cui viene posta al centro la distinzione di ogni singolo individuo, al quale viene attribuito un nome proprio.
Con la circoncisione il bambino viene strappato dunque al flusso della natura, che si muove ciclicamente secondo principi di necessità che sfuggono al nostro controllo. Senza opporsi alla natura frontalmente come a un nemico, bensì continuando a farne parte, la circoncisione è stata letta come simbolo della volontà di distinguersi attraverso cui l’uomo può diventare davvero uomo, individuo cioè pienamente consapevole dei propri limiti e dei propri mezzi. Quando, nell’episodio raccontato nel libro di Genesi immediatamente dopo la circoncisione di Abramo, tre messaggeri di Dio appaiono a Mamre al patriarca, annunciano a Sarah la nascita di un figlio in totale contraddizione alle leggi della natura. Sarah, che ha novant’anni, ride di incredulità, eppure un anno dopo nascerà Isacco. Nella lotta tra leggi implacabili della natura e un altro ordine di verità sappiamo, almeno in questo caso, che è il secondo a vincere.