L’attività segreta è come uno specchio capovolto di quella visibile, realizzata dalla politica: ruoli e obiettivi delle agenzie che maneggiano ogni giorno materiale” incandescente”
È impossibile raccontare la struttura, l’organizzazione e l’evoluzione storica dei servizi di informazione e sicurezza israeliani prescindendo dalla storia del Paese. Da prima della sua stessa costituzione in Stato, nel maggio del 1948. Poiché in essi si raccoglie non solo il repertorio delle loro principali attività, svolte all’interno e all’esterno del Paese, ma anche le dialettiche politiche e i conflitti di giurisdizione legati all’attività di intelligence, i loro contrasti interni e le competizioni intestine, così come soprattutto la questione del ricorso alla forza in un regime democratico, quindi i mutevoli criteri operativi e i conflitti di liceità tra ciò che è necessario e ciò che è legittimo. L’attività segreta è come uno specchio capovolto di quella visibile, realizzata dalla politica. Non ne costituisce il suo contrario e neanche la sua negazione ma una costante interrogazione sui limiti della seconda e sulla natura medesima del fare politica. Tanto più in un ambiente regionale ostile.
Non di meno, tanto più nell’età del digitale, ci interroga sul rapporto non solo tra visibile ed invisibile, ma sul legame tra vero, verosimile e falso nell’azione delle pubbliche amministrazioni. Poiché circoscrivere il raggio d’azione dei Servizi di Intelligence (nello specifico l’Aman, il Mossad e lo Shin Bet-Shabak) alla sola dimensione del celato, ovvero di una sorta di occulto che vivrebbe di un’esistenza propria, non ci restituisce di certo la stratificazione e la complessità di essi. Meglio lasciare da parte l’immaginario filmico sullo stile 007, per invece ragionare sulla comunità israeliana dell’Intelligence, intesa come un organismo complesso, stratificato, storicamente determinato ma anche mutevole, che raccoglie in sé sia la propensione ad essere ed agire come entità separata, sia il costituire un prodotto delle culture politiche, sociali come della storia dell’ebraismo, laddove esso ha riacquisito, con la storia del Novecento, la sua indipendenza e sovranità politica. Non va dimenticato che l’interconnessione tra civile e militare, due ambiti della vita associata, in Israele è ancora molto pronunciata. Se la carriera nell’esercito è stata per certuni il volano, una volta concluso il servizio professionale, che ha permesso l’ingresso in politica, anche assumendo ruoli di primo piano, quella nell’Intelligence nazionale ha spalancato le porte dell’imprenditoria privata, soprattutto – in anni più recenti – nell’high-tech.
Di questi e di altri elementi della cultura politica nazionale i servizi israeliani sono – quindi – al medesimo tempo in parte la premessa e soprattutto il risultato. Pertanto, non possono essere compresi se non ci si confronta con una tale cornice, al netto delle mitologie che da sempre circolano su di essi, non meno che da essi stessi – almeno in parte – alimentate a proprio beneficio. Le agenzie di informazione, intelligence e difesa sono articolate secondo un criterio che se da un lato assegna specifiche funzioni ad ognuna di esse, in base ad un principio di specializzazione, dall’altro incentiva una logica implicita di competizione collaborativa, che è propria di molti circuiti di spionaggio e controspionaggio. Anzi, nelle società a sviluppi democratico, l’articolazione e la frammentazione delle agenzie è una garanzia, al medesimo tempo, che il loro output possa essere più corposo (una pluralità di soggetti, impegnati a raggiungere lo stesso obiettivo, in tensioni competitiva tra di loro, secondo una logica di mercato delle informazioni) facendo sì che le loro distinte identità impediscano la formazione di potenziali coalizioni in totale autonomia, altrimenti pericolose per gli equilibri politici.
In altre parole, se l’Intelligence deve operare per raggiungere i suoi obiettivi come corpo separato, essendo quella branca della pubblica amministrazione le cui finalità possono essere perseguite e raggiunte solo ed esclusivamente sotto il rigido vincolo della riservatezza, una tale condizione non dovrà essere, o diventare, la premessa affinché si costituisca, nei fatti, come corpo separato. Ovvero, che inizi a pensarsi come un soggetto politico, in grado di condizionare, direttamente o anche solo indirettamente, gli indirizzi del Paese. Si tratta di una questione capitale che riguarda tutti i servizi segreti delle nazioni a sviluppo avanzato nel loro rapporto con il resto della società, non solo quella politica. Quindi, un rilevante dilemma rimanda al rapporto tra il giusto grado di distanza (autotutela da parte degli organismi democratici rispetto alle tentazioni da parte altrui di condizionarne l’evoluzione) e quello di vicinanza (scambio e reciprocità tra amministrazioni pubbliche e luoghi della decisione) che deve intercorrere tra le Agenzie e i poteri democratici. Non esiste una misura valida a prescindere ma si tratta di uno spazio di relazioni che va continuamente ricontrattato. Una tale dinamica, a volte anche conflittuale, è parte integrante del medesimo sistema democratico. Non è d’altro canto un caso se la delega sulle attività di intelligence ricada, anche in Israele, in parte sotto il dicastero del Premier, la massima autorità politica (non quella istituzionale, che è invece il Presidente dello Stato) del Paese. A volere chiaramente ribadire che la gestione della massa di notizie e la responsabilità ultima delle decisioni che da esse deriva spetta al governo (ed in immediata relazione, al ramificato sistema di poteri, da quello giudiziario al legislativo). La supervisione parlamentare sulla comunità dell’Intelligence è peraltro effettuata dalla sottocommissione per i Servizi segreti e di Intelligence, che è parte della più ampia commissione per gli affari esteri e la difesa, che controlla l’intero operato delle forze israeliane di sicurezza.
Le questioni relative all’adeguamento della struttura della comunità dell’Intelligence israeliana, i continui conflitti di giurisdizione sulla divisione delle responsabilità e delle competenze tra Aman, Shabak e Mossad, le tre maggiori agenzie, nonché lo svolgersi, spesso polemico, dei rapporti con il mondo politico, sono temi dell’agenda nazionale molte volte ripropostisi nel passato ed anche in anni a noi più prossimi. Nel corso degli anni, quindi sono state nominate varie commissioni d’indagine, sia dinanzi a situazioni di maggiori tensioni sia per proporre riforme o comunque avanzare raccomandazioni di merito sul lavoro dei Servizi. Le più importanti sono state la Commissione Yadin-Sherf (1963); la Commissione Agranat (1973-1974); la Commissione Zamir (1974); le Commissioni di Aharon Yariv (1984, 1986); la Commissione di indagine sulla condotta durante la guerra in Iraq (2004). In genere, ad ognuna d’esse corrispondevano situazioni di tensione, denunce su presunte o reali inadeguatezze, frizioni rispetto ad “invasioni di campo” riguardo ai rispettivi margini d’azione.
Le Agenzie di Intelligence, d’altro canto, maneggiano materia incandescente che, in questi ultimi decenni, ha assunto un valore ancora più corposo che nel passato. Si tratta dell’informazione, la quale non è mai un’unità a sé stante ma un complesso e ramificato sistema di reti di cognizione ed elaborazione di situazioni problematiche e di strumenti per la loro soluzione. Anche per questo le Agenzie di Intelligence sono oramai parte fondamentale, nell’economia della conoscenza, non solo del sistema integrato di difesa ma in quello della stessa economia e della produzione di innovazione. Il meccanismo start-up – che implica un investimento inizialmente a perdere (ovvero nell’incertezza degli esiti) di risorse, non solo finanziarie ma anche intellettive, affinché diventino una massa critica dalla quale si possono desumere sistemi di generazione e gestione dei flussi della conoscenza, ossia di organizzazione della cognizione della società e delle sue relazioni – è consustanziale al lavoro dell’intelligence. Questo aspetto gli inglesi, antesignani dei moderni Servizi, lo avevano inteso con grande anticipo. I sionisti dell’Yishuv e poi i primi israeliani, non a caso si sono formati a quella scuola, in un irrisolto rapporto di amore e odio con la vecchia potenza coloniale.
Quindi, ancora una volta, senz’altro difesa (prevenzione come anche offesa, laddove necessaria) ma non di meno economia e società. Il tutto sempre più spesso digitalizzato, poiché è sul tappeto della connessione costante, dello scambio delle informazioni, che si generano e si rigenerano gli equilibri di potere, le loro fisionomie, lo stesso scenario geopolitico in evoluzione. D’altro canto la specificità della storia dello Stato d’Israele ha fatto sì che ai Servizi di Intelligence, nel loro complesso, fossero attribuiti ruoli di supplenza che negli omologhi dei paesi occidentali non hanno avuto alcun riscontro, soprattutto per ciò che riguarda l’attività militare. Ciò è stato in gran parte il prodotto della peculiare condizione di dipendenza di parte della società israeliana, durante i suoi primi anni di vita, dalle forze armate, in quanto struttura organizzativa, sistema gerarchico ma anche meccanismo di relazioni sociali che potevano garantire una migliore ottimizzazione delle risorse materiali e umane disponibili. A lungo si è quindi trascinato un dibattito, a tratti molto polemico, sul ruolo dei Servizi. I critici sostengono che sia necessario riesaminare la posizione e il posizionamento assunti dagli organi di Intelligence all’interno dell’attuale società nazionale, trasferendo alcune competenze strategiche, e di immediata ricaduta politica. ad agenzie diverse da quelle dell’Intelligence. Ad esempio, i lavori della commissione sulla guerra in Iraq hanno rivendicato la necessità di offrire un’adeguata redistribuzione del lavoro tra i Servizi all’interno di una diversa selezione e preparazione professionale, nonché un migliore quadro costituzionale e giuridico di riferimento.
La medesima Commissione ha poi raccomandato di riformare l’attuale struttura della Comunità di Intelligence, riconducendo a poche strutture al medesimo tempi indipendenti (ossia, con un profilo professionale autonomo) ma interdipendenti sul piano della circolazione delle notizie e delle informazioni. La distinzione dovrebbe essere basata sulle rispettive sfere di responsabilità di ciascun Servizio. Quindi, ci si rifà all’Aman, ossia l’ «intelligence militare», come soggetto da impegnare nel lavoro per tenere costantemente informata la leadership politica sui rischi reali e potenziali di guerra e da coinvolgere nell’indagine nei confronti degli avversari, identificando gli obiettivi da praticare durante un conflitto armato; al Mossad, da indirizzare invece nella lotta contro il terrorismo, nello spionaggio ma anche nella valutazione della stabilità (o meno) dei regimi mediorientali, insieme all’attività nell’intelligenza industriale, scientifica, tecnologica, nucleare e digitale; allo Shabak, specialista nel controspionaggio; al Consiglio di sicurezza nazionale, incaricato di verificare le condizioni globali in base alle informative dell’Intelligence generale, preparando quindi le risposte relative alla sicurezza nazionale. A queste Agenzie nazionali si aggiungono il settore informativo della polizia israeliana e il Centro per le ricerche politiche del ministero degli Affari esteri. In linea teorica le ripartizioni di campo, e le rispettive competenze, sarebbero ben delineate, e non certo da oggi. Nei fatti, invece, spesso le cose non funzionano così.
A tale riguardo, una veloce ricognizione sulla divisione dei Servizi israeliani diventa a questo punto non solo utile ma necessaria. Il primo di essi è l’Aman (Agaf HaModi’in la «sezione informazioni» dell’esercito), di fatto un sistema integrato di coordinamento unitario di una serie di uffici, dipartimenti e funzioni. Raccoglie al suo interno le strutture che operano per la ricerca, la raccolta, l’analisi dei dati, con distinte specializzazioni per la forza aerea e navale. Più propriamente, l’Aman va inteso come la direzione centrale dell’Intelligence militare delle Forze israeliane di difesa (Idf). Nato nel 1950, come branchia dello Stato maggiore delle Idf, con le sue diverse migliaia di addetti gode di una relativa autonomia dagli stessi comandi militari, per evitare che i conflitti che possono sussistere nella gestione di queste ultime possano ricadere sul buon esito del lavoro del Servizio. Peraltro, il capo di Stato maggiore della difesa, la massima carica militare in Israele, può godere di una struttura molto più piccola e maggiormente celere, i Combat Intelligence Corps, per più aspetti corrispondenti ai vecchi uffici «situazione» che negli eserciti tradizionali assolvevano alla funzione di produrre informazioni in tempo reale sul piano operativo. I Cic soddisfano essenzialmente ad un ruolo di verifica e aggiornamento immediato sul piano territoriale.
Dalla seconda metà degli anni Settanta, con la riorganizzazione dei Servizi dopo la guerra del Kippur, il «Lexicon of National Security» attribuisce all’Intelligence militare, tra le altre, le funzioni di indagine e valutazione della politica di sicurezza ai fini della pianificazione militare; la «politica di sicurezza fluida», ossia l’adeguamento costante e continuativo ad ambiti e scenari mutevoli; la comunicazione dei risultati raggiunti dalle sue continue verifiche ai vertici delle forze armate e agli organi governativi; la realizzazione di sistemi e condizioni di sicurezza per lo stato maggiore nonché la formazione e il funzionamento della sicurezza in ambito militare; il filtraggio delle notizie in entrata ed uscita (la vecchia censura militare); la mappatura, non solo territoriale ma anche informativa, dei dispositivi avversari; lo sviluppo della dottrina dell’intelligence nell’ambito della ricerca, della raccolta e della sicurezza sul campo; la tutela del personale e degli addetti militari all’estero e in missione; la direzione delle singole unità di raccolta delle informazioni, sul territorio nazionale e al di fuori dei confini. L’Aman ha poi una sua articolazione territoriale basata sui quattro comandi regionali, quello centrale, il meridionale, il settentrionale e l’interno («Home Front»).
Alcuni elementi emergono al riguardo. Tra di essi, la presenza di specializzazioni come l’«Unità 8200» impegnata nella cybewarfare (la «guerra cibernetica», un ambito oramai strategico delle sovranità nazionali), l’Open Source INTelligence (il cui acronimo è OSINT, in italiano: «Intelligence delle fonti libere»), che è l’attività di raccolta d’informazioni mediante la consultazione di fonti di pubblico accesso; la captazione e l’elaborazione delle emissioni elettromagnetiche ed elettroniche. All’Unità 8200 si affianca, tra gli altri, la Sayeret Matkal (l’«Unità di Ricognizione dello Stato Maggiore») che è a tutti gli effetti un’unità militare operativa, composta da forze speciali, alle dirette dipendenze delle forze armate. A quest’ultima, competono compiti di contrasto diretto del terrorismo, di raccolta sul campo di dati ed informazioni, di dissuasione e neutralizzazione delle minacce dirette, di identificazione e recupero di eventuali ostaggi. Il modello, anche in questo caso, è permutato dall’inglese SAS (lo «Special Air Service»). L’esistenza della Sayeret Matkal, nata nel 1957, e ripetutamente operativa in una serie di iniziative destinate poi a raccogliere una vasta eco (ad esempio l’«operazione Thunderbolt», con la liberazione nel 1976 di un centinaio di ostaggi all’aeroporto di Entebbe), fu tenuta segreta a lungo. Il reclutamento dei suoi membri, basato su una particolare selettività, per un certo periodo si fondò sulla preferenza nei confronti di elementi che non solo presentassero determinati requisiti psicofisici ma appartenessero a cerchie familiari o amicali piuttosto omogenee. All’apposito addestramento militare e di intelligence si accompagna la specializzazione nel Close Quarter Battle – CQB, il combattimento ravvicinato; la preparazione alla liberazione di ostaggi; l’acquisizione di competenze legate alla ricognizione, all’analisi dei dati, alla gestione in autonomia di situazioni di particolare criticità. Va da sé, tuttavia, che l’intelligence dell’esercito non potesse bastare, in una società articolata su più piani intrecciati, dove la linea di separazione tra civile e militare si è spesso rivelata tenue. Sulle ulteriori, ed anche meglio conosciute, agenzie, avremo quindi modo di ritornare a breve.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.