Hebraica
Halakhah e derekh eretz: la cultura rabbinica del buon senso

Legge divina e legge umana, una riflessione sul vivere civile

In questi giorni di quarantena forzata per contrastare il coronavirus sembra ci sia più tempo per riflettere – e per riflettere su questioni date finora scontate. Per le menti più prone alle meditazioni cervellotiche, la limitazione della libertà personale è una di queste. Certo, nessuno osa mettere in dubbio, o peggio ribellarsi, all’autorità di uno stato che ha preso le redini della vita quotidiana dei suoi cittadini in una situazione di emergenza inusitata. Tanto che chi scrive, per esempio, si è autoimposta l’isolamento all’italiana già da una settimana pur vivendo in un paese, la Germania, che ancora latita quanto a misure stringenti di impedimento della mobilità. Tuttavia – e forse con lo zampino di quel misto di noia e ansia che caratterizza il nuovo tempo personale al tempo della pandemia – è difficile non pensare ai risvolti, anche solo teorici, che il blocco della vita sociale comporta. Ma non è delle gravi conseguenze economiche, sociali e, perché no, psicologiche che l’epidemia globale può generare che vorrei parlare. Piuttosto, propongo un ragionamento piuttosto ebraico sulle implicazioni legali, filosofiche e culturali dello stato di restrizione di cui sopra.
Cosa può dirci il mondo ebraico sulla complessa questione del rapporto tra norma – e dunque imposizione esterna – e pratica – e dunque arbitrio personale? Come sempre, partiamo con le parole perché nelle parole spesso troviamo un diamante grezzo di concetti da polire. Il termine con cui si indica la legge in ebraico è halakhah. Halakhah deriva dalla radice halakh, che significa andare, camminare. L’halakhah perciò non è semplicemente la legge, quanto piuttosto la condotta, la strada che ciascuno percorre agendo all’interno di determinati paletti con una determinata direzione. Sappiamo che i paletti delle legge ebraica sono numerosi come le stelle nel cielo e la sabbia nel mare, tanto da costruire una forma di vita – e non semplicemente un lifestyle – peculiare che caratterizza, in vari gradi e modalità, l’appartenenza all’ebraismo. Si potrebbe dire che la halakhah è un sistema giuridico che sconfina nella morale e nell’etichetta creando un’identità.
Un’altra questione che distingue la halakhah da quanto comunemente intendiamo con “legge” è il problema della sua applicazione. Dobbiamo ricordare che la complessa enciclopedia di precetti sintetizzata nel Talmud e in opere rabbiniche affini venne formulata e compilata in un’epoca – dal primo al settimo secolo e.v. – in cui la popolazione ebraica (nella Palestina romana e nella Babilonia persiana) non godeva, se non limitatamente, di autogoverno politico. L’esecuzione della halakhah, cioè, non era garantita da un’autorità politica ma dall’autorevolezza di una élite socio-culturale, quella dei rabbini. E, in effetti, rimane ad oggi pressoché impossibile conoscere in che misura le minoranze ebraiche rispettassero le norme halakhiche al tempo in cui esse venivano composte. Fatto sta che sarà solo dal medioevo in poi che il Talmud diverrà il testo di riferimento legale per l’ebraismo.
Già in questi testi minuziosi troviamo però un appiglio concettuale, ancora in stato embrionale, che può tornare utile ancora oggi nel nostro rapporto privato e pubblico con la legge, il potere politico e la società. Si tratta del concetto di derekh eretz. In maniera molto meta-storica, potremmo tradurre derekh eretz come “civiltà”. Il termine di per sé non sembra così lontano dal senso stesso della halakhah: derekh eretz è letteralmente la “via della terra”. Per la verità, sono molti i significati attribuiti in epoca rabbinica a questa espressione – da “rapporto sessuale” a “buone maniere”. Ciò che però sembra accomunare le varie sfumature semantiche è l’idea implicita di “cosa che va così come deve andare”. Derekh eretz è una categoria ideale che include tutto ciò che è ovvio, naturale – e per questo auspicabile – nel comportamento umano. Diversamente dalla halakhah, la cui fonte è, in ultima istanza, divina pur nella mediazione umana (sia la Torah scritta, il Pentateuco, sia la Torah orale, il Talmud, sarebbero state rivelate a Mosè sul Sinai), la derekh eretz sembra essere un criterio di azione del tutto umano.
Se i testi rabbinici, che pure nominano spesso questo concetto e vi dedicano persino un paio di trattati (Derekh Eretz Rabbah e Derekh Eretz Zuta), sono parchi nella formulazione teorica, a partire dal medioevo troveremo invece riflessioni più o meno sistematiche sul significato di derekh eretz. Interessante da questo punto di vista è un’opera moralistica scritta dal rabbi romano del XIII secolo Yehyel ben Yequtiel Anaw, il Sefer maalot ha-middot (il Libro sulla scala dei valori). Il penultimo capitolo dell’opera istruisce il lettore proprio sul valore morale della derekh eretz, che l’autore introduce così:

“[La derekh eretz …] è un grado morale universale, che comprende tutti gli altri gradi morali, sia spirituali sia fisici – i quali con essa si estendono, come fossero sue diramazioni da una parte e dall’altra. […] Il valore della derekh eretz è caro all’Onnipresente perché chi è dotato di derekh eretz è un vanto sia per il Santo-sia-benedetto sia per la gente. Tale persona è un vanto persino per la Torah: quando la derekh eretz sussiste assieme alla Torah, non solo quest’ultima si adorna di quel valore, ma grazie ad esso si raffina la perizia toranica stessa. Perciò uno studioso di questo tipo è benvoluto e stimato da tutti, e tutti quanti egli attira in virtù della sua derekh eretz. Chi invece non è dotato di derekh eretz non può nemmeno vivere con gli esseri umani, dal momento che quello che fa non è benvoluto e quello che dice non è ascoltato, e le altre persone lo emarginano. […] Derekh eretz significa che ciascuno deve riflettere in cuor suo sulle vie in cui comportarsi e condursi così da soddisfare tanto l’Onnipresente quanto la gente”.

Qualche secolo più tardi, nel Cinquecento, rabbi Juda Loew ben Bezalel di Praga, noto anche con l’acronimo di Maharal e celebre per essere l’inventore del golem, scriverà anch’egli un capitolo sulla derekh eretz in un trattato di contenuto etico dal titolo Netivot Olam (Sentieri del mondo). Qui il tratto umano della derekh eretz è espresso in termini ancora più chiari:

“La derekh eretz è la condotta che ci si aspetta dall’uomo, e non consiste in precetti comportamentali umanamente ardui, ma si tratta semplicemente della via in cui gli esseri umani si portano, ovvero la via dei sapienti – che prende il nome di derekh eretz. […] Ciò significa che la Scrittura, ovvero la Torah, rappresenta la sapienza superiore e divina che deriva interamente da Dio – sia benedetto – mentre la derekh eretz rappresenta l’intelletto umano: ciò che si deve fare secondo intelletto umano e come si deve farlo, così come le altre cose concepite dal [solo] intelletto umano. Tutto ciò costituisce invece la sapienza inferiore. […] La Mishnah invece si trova a metà strada tra la sapienza superiore, ovvero la Scrittura, e la derekh eretz, che è la sapienza umana”.

In una gerarchia delle fonti di autorità da seguire nella condotta spirituale, morale e pratica, alla rivelazione divina (la Torah) segue la legislazione religiosa (la Mishnah, ovvero la base testuale del Talmud). Infine viene la derekh eretz, il sale in zucca all’essere umano. Il messaggio che possiamo cogliere sembra adesso più chiaro: dove non arriva la legge (o persino Dio, se ci crediamo), dovrebbe arrivare la derekh eretz: la civiltà, il senso comune, il buon senso. Il buon senso, già. Usiamolo. Non abbiamo neanche bisogno dei rabbini a raccomandarcelo. O forse sì?

Ilaria Briata
Collaboratrice

Ilaria Briata è dottore di ricerca in Lingua e cultura ebraica all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha pubblicato con Paideia Editrice Due trattati rabbinici di galateo. Derek Eres Rabbah e Derek Eres Zuta. Ha collaborato con il progetto E.S.THE.R dell’Università di Verona sul teatro degli ebrei sefarditi in Italia. Clericus vagans, non smette di setacciare l’Europa e il Mediterraneo alla ricerca di cose bizzarre e dimenticate, ebraiche e non, ma soprattutto ebraiche.


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