Piccola selezioni di classici da rivedere a casa, uniti da un fil rouge, riflettere sull’essere liberi
Tre film in una stanza per imparare che cosa vuol dire libertà
Costretti dalle indispensabili misure di contenimento del Coronavirus a prolungato isolamento domestico, ci possiamo dedicare a guardare o riguardare film che non abiamo mai visto ma avremmo da sempre voluto vedere o quelli che ci sono molto piaciuti e finalmente abiamo il tempo di rivedere. Insomma, i classici. In quanto segue vorrei provare a riflettere su tre film – tre grandi film – in cui l’azione si svolge tutta o quasi in una stanza. Sono opere che in modo diverso ruotano intorno ai concetti di libertà e responsabilità.
Un condannato a morte è fuggito (Francia 1956)
Diretto da Robert Bresson su una sceneggiatura che sviluppa una storia vera, racconta la prigionia e l’evasione di un uomo, Fontaine, arrestato dai tedeschi a Lione nel 1943, durante la Resistenza. Sappiamo che Fontaine è un partigiano ma non conosciamo quello che ha fatto, per quasi la totalità del film infatti lo vediamo, solo, in una cella di due metri per tre. Conosciamo già dal titolo la conclusione della vicenda, eppure l’opera non perde nulla in termini di tensione. Quello di Bresson è un film austero e sobrio, compatto, dallo stile disadorno ma per nulla lento, non recitato e anzi più naturale possibile, insomma un’opera minimalista nello stile caratteristico del regista francese. L’edizione originale porta il sottotitolo “le vent souffle où il veut”, il vento soffia dove vuole, a indicare la complessità del percorso di libertà di un uomo che è stato condannato a morte e che per eccellenza vive in solitudine. Non dobbiamo aspettarci però un film tutto teorico e astratto; al contrario, quello che Bresson mostra è una serie di fatti concretissimi e in essa, sembra dirci, è racchiusa la bellezza, la poesia e, non da ultima, la libertà. Fontaine esamina a lungo la cella, di cui veniamo a conoscere i minimi dettagli. Il prigioniero è isolato; il dolore non viene mostrato e delle fucilazioni che avvengono in cortile sentiamo, con Fontaine, soltanto il rumore; le guardie, né sadiche né amichevoli ma indifferenti, non raggiungono la complessità dei personaggi: non stupisce, allora, che il dialogo sia inesistente e la laboriosa solitudine del protagonista occupi la scena. Nonostante l’ambiente claustrofobico e la condanna già scritta, l’uomo trova fin da subito la forza di cercare gli espedienti che gli consentiranno la fuga. Bresson ci mostra a lungo le sue mani che lavorano senza posa con l’aiuto di strumenti minimi come un cucchiaio da minestra. A un certo punto, quando Fontaine ha ormai pianificato nel dettaglio la fuga, nella cella viene rinchiuso un altro uomo, uno sconosciuto. Anch’egli un prigioniero condannato a morte oppure una spia? Le alternative per Fontaine sono allora due sole, provare a ucciderlo o coinvolgerlo nella fuga. La fiducia che infine prevale sarà la premessa della libertà.
Una giornata particolare (Italia e Canada, 1977)
E’ davvero una giornata particolare quella del 6 maggio 1938, in cui si svolge la vicenda del film diretto da Ettore Scola. La data, storica, è quella dell’arrivo di Hitler a Roma per incontrare Mussolini. Nella lunga sequenza di apertura vediamo Antonietta (Sofia Loren) che, in piedi molto prima degli altri per sbrigare lavori domestici, sveglia e aiuta a preparare i sei figli e il marito. Siamo in una casa italiana negli anni del massimo consenso al regime, non stupisce dunque la devozione a Mussolini di Antonietta e il fervente fascismo dell’uomo di cui è moglie. Il padre e i figli si avviano a presenziare allo storico incontro mentre Antonietta, “moglie e madre esemplare” perfettamente inquadrata nel regime, rimane naturalmente a casa. Mentre torna continuamente il vociare della radio a riportare trionfalmente i dettagli della visita del capo del Terzo Reich nella capitale, Antonietta conosce per caso il vicino Gabriele (Marcello Mastroianni), un ex annunciatore radiofonico messo ai margini dal regime. Gabriele, pur senza essere un militante antifascista, è considerato doppiamente sovversivo: non si lascia inquadrare nelle strette maglie della dittatura ed è omosessuale. Tutto il film è un confronto tra Antonietta e Gabriele, che rappresentano mondi lontani tra i quali però, ci dice Scola, il dialogo è possibile. Il fascismo che l’opera rappresenta non è caricaturale e la critica al regime liberticida non è affatto generica. L’oppressione psicologica capace di irregimentate non solo le azioni, ma soprattutto i pensieri, può essere temuta, ma anche e sovente desiderata. Di fronte alla violenza della dittatura, che è evidente nel ruolo al quale la donna è relegata e nella penetrazione del pubblico nel privato, la condanna da lontano non sortisce effetti. L’alternativa, che è quella che Scola ci mostra, è avvicinarsi, rischiare di sporcarsi ben più delle mani, e prendere coscienza di cosa sia un regime totalitario.
La parola ai giurati (Usa, 1957)
Come nel film di Bresson, anche in quello diretto da Sydney Lumet l’effetto sorpresa svanisce presto e quello che conta è il come più che il cosa. Basata su uno sceneggiato televisivo, tutta la pellicola tranne i primi tre e gli ultimi due minuti mostra dodici uomini chiusi in una stanza che discutono. Sono i giurati che devono decidere della colpevolezza o dell’innocenza di un giovane processato per l’omicidio del padre. L’ovvia e rapida conclusione, viste le prove schiaccianti, sembra essere un giudizio di colpevolezza e la conseguente pena di morte prevista per un caso simile. Uno dei giurati (Henry Fonda) non la pensa così e convince uno per volta gli altri undici dell’esistenza di almeno un ragionevole dubbio che l’imputato non sia colpevole. In una stanza di un palazzo newyorchese in una giornata calda e afosa, è appassionante assistere al continuo evolvere delle dinamiche tra i giurati, il cui dialogare, affrontarsi e scontrarsi coinvolge la parola, il linguaggio dei corpi, la forza e la debolezza delle personalità. I dodici riuniti intorno a un tavolo rappresentano tipi umani differenti per origini, idee, pregiudizi, non sono però maschere dall’espressione fissa ma, al contrario, sanno evolvere. Grazie anche alla fotografia di Boris Kaufman le relazioni di ogni singolo con il gruppo vengono messe in risalto, mentre la stanza sembra restringersi progressivamente con l’avanzare dei minuti (decisivo l’utilizzo di lenti con focale maggiore nel finale), dando l’impressione di un ambiente sempre più claustrofobico. La parola ai giurati è un film sulla democrazia, sui suoi pregi e difetti e sulla parola, di lei strumento principe. Il valore del tempo, della calma e della tranquillità anche quando si sta decidendo se mandare a morte un uomo è ribadito in tutta l’opera e affermato dal giurato interpretato da Fonda: “Non possiamo decidere in cinque minuti. E se commettessimo un errore?”. La libertà di cittadini, insegna Lumet, è una conquista che può avvenire solo tramite il confronto con gli altri, mentre l’ascolto delle altrui storie, esigenze e pregiudizi, insieme al dialogo, è lo strumento che porta alla consapevolezza dei propri diritti, ma soprattutto dei propri doveri. Se, infine, la responsabilità è sempre individuale, è anche sempre calata in un contesto collettivo: che fare il nostro compito in coscienza senza guardare a quello che fanno le persone intorno a noi non sempre basti è un’altra delle lezioni del film.
Una cella angusta, un appartamento in un quartiere popolare, una stanza presso l’aula di un tribunale: tre contesti diversi, ma in qualche modo affini, in cui parlare di libertà. Libertà. Dipende da noi, da ciò che facciamo a prescindere dalle circostanze? Oppure è presa di coscienza? E’ responsabilità nei confronti di altri? O infine ha valore civile e sociale? Forse un po’ di tutto questo insieme. Buona visione!