“Im eshkachech Yerushalayim, Tishkach yemini”: Se ti dimentico oh Gerusalemme, possa essere dimenticato il mio (braccio) destro. Una riflessione sul nostro rapporto con l’Ebraismo.
Complice una lunga lista di sit-com, serie e film americani, molti sanno che alla fine della cerimonia del matrimonio ebraico si rompe un bicchiere. Sono meno però coloro che ne conoscono il motivo e che cosa rappresenta, e sanno quello che viene detto esattamente: “Im eshkachech Yerushalayim, Tishkach yemini“: Se ti dimentico oh Gerusalemme, possa essere dimenticato il mio (braccio) destro.
Sorvolerei – ma non troppo – sul fatto che fino a qualche matrimonio fa ero convinta che il significato fosse ben più tenero di quello reale. Credevo infatti che la traduzione letterale fosse: “Se ti dimentico, possa Gerusalemme dimenticare il mio braccio destro” e che ci fosse quindi una sorta di patto tra lo sposo e la città. Nella mia versione Gerusalemme diventava testimone dell’impegno dello sposo nei confronti della sposa a non dimenticarla, lasciarla o metterla in secondo piano, a costo della paralisi del braccio ritenuto più importante.
Mi soffermerei invece su quello che il gesto rappresenta veramente. Le interpretazioni relative alla rottura del bicchiere sono più d’una, ma essa simbolicamente ricorda la distruzione del tempio di Gerusalemme e il conseguente lutto che il popolo ebraico ricorda ancora, dopo oltre 2000 anni.
La mia interpretazione, oltre ad essere inguaribilmente romantica, risponde maggiormente a una logica (la mia) che mette al centro del rito matrimoniale la celebrazione dell’unione di una coppia piuttosto che quella di Gerusalemme, città in cui la maggior parte di chi nei secoli ha pronunciato quelle parole non ha mai messo piede.
Gerusalemme individuali
Il motivo per cui in un momento di estrema gioia ci sia una ritualità che ricordi un momento di estremo lutto si può invece spiegare con il ruolo che la distruzione del Tempio e il conseguente esodo hanno avuto per il popolo ebraico. E Gerusalemme, si sa, è stata appunto per millenni la stella polare dell’Ebraismo. La si ricorda durante il matrimonio, la si augura a chiusura del seder di Pesach; la si è cantata, narrata e desiderata ovunque ci fosse vita ebraica: dall’Europa dell’est al Maghreb, passando per i paesi balcanici e continuando fino all’Etiopia. Gerusalemme, la sua immagine positiva, la sua idea di luogo ameno è quindi presente in tutte le tradizioni – anche le più distanti – in maniere più o meno uguali ma con la stessa intensità. Infatti indipendentemente dalle idee sioniste o non sioniste, Gerusalemme è così trasversale che non si può pensare ad un ebraismo senza di essa.
Ma la bellezza e la forza dell’ebraismo è che il legame con Gerusalemme è unico, innegabile ma non esclusivo; ognuno ha infatti le proprie bussole, quelle piccole e grandi colonne portanti dell’ebraismo di ciascuno, che mi piace chiamare le “Gerusalemme individuali”; e sono quelle cose che connettono con il proprio ebraismo e danno un senso all’essere ebrei.
Io ne ho tante e mi fanno tutte sorridere e anche un po’ emozionare quando ci penso: gli zuccherini a Pesach anche se ormai non si possono più fare con la farina kasher, il tavolo di Kippur imbandito per l’angelo, le melanzane con il melone che sono così buone che non ti fanno invidiare neanche per un minuto il prosciutto, “Bibilu iazanu mimitzraim” una tradizione di dubbia razionalità che vuole vedere il cesto del seder girare su tutte le teste dei presenti, ma anche Superquark che ha accompagnato tanti venerdì sera in famiglia.
Ebraismo individuale
Per qualcuno l’Ebraismo sono le feste e per altri le canzoni e la letteratura; per alcuni è una voce o un odore, per altri una valore in particolare oppure delle radici affondate nella storia o una proiezione verso il futuro. Qualche giorno fa un amico ha condiviso che per lui l’ebraismo era sua nonna anche quando a volte pranzavano a pasta e vongole. So di chi non immagina un ebraismo senza i campeggi estivi di Szarvas e di altri che devono la loro identità ebraica ai movimenti giovanili.
L’Ebraismo è quindi pieno di Gerusalemme, ognuna con un valore insindacabile proprio perché personale e individuale. Senza gerarchie sono un crogiolo di culture, storie familiari, emozioni, affezioni e contraddizioni… proprio come la città verso cui da millenni ci rivolgiamo. Che sia un caso?
Da sempre affascinata dai diversi modi di vivere, ho una laurea in antropologia culturale ed esperienze lavorative nel mondo degli eventi come veicolo di contenuti. Faccio parte di quella generazione che ancora, quando attraversa un parco, controlla per terra che non ci siano siringhe; quella generazione un po’ schizofrenica che è stata cresciuta con l’idea che l’istruzione fosse la chiave per avere il mondo in mano ma che poi “tanto la laurea non vale niente” e che sta attaccata allo smartphone ma si emoziona con il profumo dei libri appena stampati. Mezza italiana, mezza libica e dei gemelli non ho quindi mai avuto problemi con la gestione di un’identità plurima e a volte confusa.