Hebraica
Aborto e legge ebraica nei media

Piccola rassegna stampa per capire come il pensiero ebraico vede l’interruzione volontaria di gravidanza

Nella moderna società occidentale, la scena del dibattito ideologico e politico sulla legittimità di ricorrere all’aborto tende a essere dominata da due attori: il pensiero pro-life, di matrice cristiana, che riconosce lo status di persona al feto fin dal momento del concepimento e, quindi, ritiene inammissibile ogni ricorso all’aborto in quanto vero e proprio omicidio; e il pensiero pro-choice, fondato sulla nozione di diritto individuale e libertà di decidere del proprio corpo.

È interessante vedere come il pensiero ebraico si differenzi da entrambi: esso contempla l’eventualità del ricorso all’aborto, ma per motivazioni che non hanno a che vedere con l’affermazione di un diritto.

 

Sguardo alle prime fonti: ason, disgrazia

Una rassegna essenziale di fonti sulla questione è proposta da Tirzah Meacham, docente di Letteratura Talmudica e Rabbinica all’Università di Toronto, su Jewish Women’s Archive. Il primo riferimento biblico si trova in Esodo 21: 22-25, che però non prende in esame l’aborto volontario, bensì quello spontaneo a seguito di una violenza. Il passaggio stabilisce che colui che colpisce una donna incinta e uccide il feto che porta in grembo dovrà pagare un risarcimento, ma non è imputabile per omicidio; lo è, al contrario, se uccide la donna. La parola usata per definire la conseguenza della violenza è ason, disgrazia. Mentre la maggior parte dei testi rabbinici concorda sull’equivalenza disgrazia = morte della donna, la versione della Bibbia in lingua greca del III secolo a.e.v. (la cosiddetta Versione dei Settanta o Septuaginta) interpreta l’ason come la morte del feto che abbia già raggiunto un certo stadio di sviluppo. Questa, spiega la studiosa, fu la prima pietra posta a separazione tra il pensiero ebraico e quello aristotelico al quale il cristianesimo attingerà pochi secoli più tardi. L’ebraismo non fu impermeabile all’influenza greca e in particolare alla discussione sull’anima di Platone e Aristotele, tuttavia la codificazione della Halakhah finì per escludere l’equiparazione aborto-omicidio, e ciò essenzialmente a causa dello status attribuito al feto.

 

Nefesh e Pikuah nefesh: la vita e la sua salvaguardia

Il Talmud (Yevamos 69b) riporta la visione di Rav Hisda, secondo la quale il feto, fino a quaranta giorni dal concepimento, è pura acqua. Dopo i quaranta giorni e prima del parto, il feto è considerato parte della madre, quindi privo di status legale indipendente. La Halakhah riconosce lo status di persona (nefesh, essere dotato di anima) solo a nascita avvenuta; precisamente, a partire dal momento in cui, nel travaglio, esce la testa, oppure la maggior parte del corpo se parliamo di un parto podalico. Ne consegue (si veda il commentario di Rashi a Mishah Oholot 7:6) che prima di questo momento sopprimere il feto non significhi uccidere. Tutto ciò tuttavia non vuol dire che il feto sia privo di qualsiasi status o tutela (per salvarlo, ad esempio, è consentito violare lo Shabbat) e che l’aborto sia permesso in ogni evenienza.

Rabbi Avi Shafran, direttore delle relazioni coi media di Agudah, organizzazione ortodossa americana, sul Jerusalem Post va dritto al punto: “Nell’ebraismo, l’aborto non è un diritto e la gravidanza è una responsabilità”. Continua: “Il concetto di “diritto” è fortemente radicato nelle nostre menti occidentali. Raramente ci soffermiamo a metterlo in discussione. Ma questa idea, per quanto meravigliosa e utile sia per l’umanità, non convive molto in armonia con una profonda e radicata verità ebraica: tutto ciò che ci giova non è dovuto a noi, ma è piuttosto un dono che siamo tenuti a utilizzare responsabilmente al servizio di qualcosa di più grande di noi”.

La prima responsabilità riguarda la salvaguardia della vita (piquah nefesh) e, in tale ottica, l’aborto è permesso qualora la vita della madre sia in pericolo. Una vita, infatti, si può colpire solo nel caso in cui attenti a un’altra vita. Secondo Maimonide, qualora la gravidanza rappresenti un rischio per la madre, il feto è definibile ke-rodef (assimilabile a un persecutore) e in quanto tale non è solo possibile, ma anche giusto fermarlo. La vita della madre, che gode del pieno status di nefesh, persona con anima, prevale su quella del feto che non l’ha ancora raggiunto.

 

Questione di diritto? No, di scelta responsabile

In tutti i casi, comunque, sottolinea Rabbi Shafran, “la decisione di interrompere una gravidanza non è una questione di diritto di scelta della donna. Ma è sua la sua responsabilità di scegliere correttamente”. La madre non deve infatti decidere da sola, ma consultarsi con un posek (letteralmente “decisore”), un esperto di Halakhah che deliberi su quale sia la decisione giusta. La valutazione sulla pericolosità della gravidanza è materia delicata: mentre alcune interpretazioni rimangono nell’ambito della salute fisica, altre considerano anche l’aspetto della salute psichica.

Ephraim Sherman, ortodosso, infermiere e ricercatore, su JTA cita il contributo di Eliezer Yehuda Waldenberg (1915-2006, meglio conosciuto come Tzitz Eliezer), rabbino, posek e dayan (giudice di tribunale rabbinico) di Gerusalemme, considerato uno dei maggiori esperti contemporanei di Halakhah ed etica medica. Waldenberg spiega che la Halakhah prende in esame numerose casistiche e che un posek non deve valutare solo il rischio diretto di morte della madre, ma anche la possibilità che continuare la gravidanza sia per lei causa di dolore e stress dal quale potrebbe non riprendersi, nonché i casi in cui il feto presenti malformazioni gravi e abbia perciò un’aspettativa di vita breve e dolorosa. Altri, come Rabbi Moshe Feinstein (1895-1986), che è stato de facto la più importante autorità halachica per gli ebrei ortodossi negli Stati Uniti, rifiutano questa interpretazione ampia: o la vita della madre è in reale e comprovato pericolo, oppure l’interruzione di gravidanza non è ammessa.

 

Una posizione sfumata

Malgrado la Halakhah contempli la possibilità dell’aborto, c’è una parte del mondo ebraico, perlopiù ultraortodosso, che se proprio costretta a prendere posizione tende ad allinearsi con i pro-life. Non è una novità della nostra epoca: già nei secoli passati il passaggio delle Tosafot (commentarii del Talmud) che recita: “Se qualcosa è proibito ai Gentili, sicuramente è proibito anche agli Ebrei”, venne esteso da alcuni anche alla questione dell’aborto.

Sherman spiega che la soluzione del puzzle si può trovare nella volontà di osservare la Halakhah: meglio non affiancarsi ai pro-choice, se le loro ragioni a favore dell’aborto non sono ebraiche: “Per un ebreo osservante, una legislazione permissiva che provochi l’aumento di interruzioni di gravidanza per ragioni non giustificabili halachicamente, è uno scenario preoccupante. Forse, si dice tra sé e sé, è meglio avere leggi severe che proibiscano queste scelte”.

Per concludere, accostare il pensiero ebraico alle categorie del pro-life o pro-choice non è possibile: la posizione dell’ebraismo poggia su fondamenta diverse. Per fare due esempi, una ricerca svolta nel 2015 dal Pew Research Center mostra che l’83% degli ebrei americani ritiene giusto che l’aborto sia legale. Ma dall’altra parte, abbiamo realtà come la Jewish Pro-Life Foundation, che si impegna a “promuovere soluzioni che salvino vite per le gravidanze indesiderate nella comunità ebraica”.

 

 

 

Silvia Gambino
Responsabile Comunicazione

Laureata a Milano in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale, ha studiato Peace & Conflict Studies presso l’International School dell’Università di Haifa, dove ha vissuto per un paio d’anni ed è stata attiva in diverse realtà locali di volontariato sui temi della mediazione, dell’educazione e dello sviluppo. Appassionata di natura, libri, musica, cucina.


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