Hebraica Nizozot/Scintille
Abraham Joshua Heschel: la via aggadica alla verità

Come filosofo del giudaismo volle mediare i grandi modelli ebraici della tradizione chassidica ma anche i valori della scholarship e della prassi halakhica in un linguaggio che facesse riappassionare il mondo ebraico alle “verità” del giudaismo

Chi, nel mondo ebraico, ignora il nome di Abraham Joshua Heschel? Ben pochi, credo. E tuttavia forse pochi saprebbero dire perché questo maestro del XX secolo è divenuto, già in vita, un autore di culto e in che modo ha influenzato la vita ebraica contemporanea. In effetti Hescel (1907-1972) è stato molte cose tutte insieme: un mistico e un filosofo, un meticoloso ricercatore e un affascinante divulgatore, un difensore dell’halakhà e un cantore dell’aggadà, un pionere dei diritti civili (marciò al fianco di Martin Luther King a Selma, Alabama, negli anni Sessanta) e del dialogo interreligioso ma al contempo un profeta della controcultura, quando sfidò lo ‘spirito del capitalismo’ proponendo l’eterno valore ebraico dello shabbat. Di sé diceva che esser nato, sì, a Varsavia, ma di ritenere la sua vera culla la città di Medzibiz in Podolia (Ucraina), dove visse gli ultimi anni della sua vita il Ba‘al Shem Tov, il fondatore del chassidismo. Quanto al suo nome, gli era stato dato in memoria di un suo bis-nonno, l’omonimo Rav di Apte e appunto l’ultimo grande rebbe di Medzibiz, ivi sepolto accanto al carismatico modello di tutti i chassidim. Tuttavia l’Heschel novecentesco non fu solo un erede di quella tradizione mistica; coltivò infatti sia gli studi rabbinici sia quelli profani, dedicandosi nei primi anni Trenta alla filosofia tedesca, in quella che allora era ancora la capitale dell’alta cultura ebraica in Europa: Berlino. Ben presto vi divenne insegnante di Talmud, nella Hochschule votata alla ‘scienza del giudaismo’ che approcciava le fonti ebraiche con metodo storico-critico. Nondimeno, l’intensa formazione ortodossa e una salda fede contribuirono, in Heschel, a sviluppare una visione della vita ebraica non meramente accademica, capace di coniugare una fedele osservanza con un grande senso critico, incline persino ad offrire i tesori della tradizione rabbinica al mondo non ebraico. Virtù rare e raramente combinate, ieri come oggi.

La svolta della sua via fu l’arresto a Francoforte da parte della Gestapo. In seguito, tornato a Varsavia, ebbe la possibilità di riparare a Londra, giusto poche settimane prima che Hitler invadesse la Polonia. Da lì il suo viaggio proseguì negli Stati Uniti, prima a Cincinnati, nel quartier generale del giudaismo riformato (sempre come insegnante di Talmud) e poi a New York, al Jewish Theological Seminary che divenne la sua vera affiliazione e dove gli affidarono una cattedra congiunta di mistica e di pensiero ebraico. Sarà in quell’ambiente che matureranno le opere che lo hanno reso famoso come ‘filosofo del giudaismo’. Se in Polonia aveva scritto sia in yiddish sia in tedesco, oltreoceano la sua comunicazione avveniva in inglese: in tale lingua apperve l’opera L’uomo non è solo, del 1951; Il Sabato: il suo significato per l’uomo moderno, sempre del ’51; e ancora Dio alla ricerca dell’uomo: una filosofia del giudaismo, del ’55. In quegli anni la vita ebraica americana era in preda a una specie di ‘fregola assimilatoria’, che spingeva le sinagoghe a copiare quel che accadeva nel mondo cristiano-protestante trasformandosi in centri di aggregazione sociale più che di preghiera e di studio.

A parte le minoranze ortodosse e chassidiche, a quell’epoca gli ebrei americani erano ammaliati dall’impostazione sociologico-positivista di Mordechai Kaplan (1881-1983), già docente al Jewish Theological Seminary ma dal quale era fuoriuscito per fondare un proprio movimento, il Ricostruzionismo, che, come dice il nome, voleva ricostruire la vita ebraica su un’idea ‘culturale’ di comunità, ipersemplificando di conseguenza la prassi halakhica e più in generale la pratica religiosa. Heschel si rese conto che quest’andazzo avrebbe inaridito il giudaismo americano, alienandolo proprio dalle sue fonti, dallo studio e dalla conoscenza, ma soprattutto dall’afflato di fede e di stupore nella Rivelazione. Insomma, avvertì il bisogno di elaborare nuove motivazioni e insufflare lo spirito tipico del chassidismo che lui stesso aveva respirato nella vecchia Europa orientale, mondo ormai scomparso con la Shoà. Con i suoi libri e il suo insegnamento Heschel divenne ben presto un anti-Kaplan e il suo messaggio servì a contrastare – sia tra i reform sia tra i conservative – una deriva di tipo razional-pragmatista e a rilanciare il pathoscioè l’emozione della fede, il coraggio della fedeltà e le grandi idee del giudaismo religioso, specie dei grandi maestri del chassidismo.

Tale movimento, infatti, si era sviluppato porprio in antitesi sia alla deriva assimilazionista (frutto imprevisto e certamente non voluto dell’haskalà berlinese) sia all’ortodossia dei mitnaghdim, che sottovalutavano la dimensione emotivo-psicologica della vita religiosa (rilanciata poi dall’interno anche dal movimento del musar). Pertanto Heschel è stato a lungo additato come un anti-modern orthodox, quasi un anti-Soloveitchik, sebbene questa contrapposizione sia vera solo in parte. Heschel fu una grande studioso e sistematizzatore dell’aggadà midrashico-talmudica, più che dell’halakhà. Pur fedele alla Torà orale, non colse il senso dell’antropologia halakhica sviluppata da rav Joseph B. Soloveitchik (1903-1993), attivo a sua volta a New York, alla Yeshiva University. L’enfasi hescheliana sulla dimensione aggadica del giudaismo prese l’autorevole forma di tre volumi, scritti in ebraico, intitolati Torà min-ha-shammayim be-aspaqlaria shel ha-dorot ossia “La Torà dal Cielo nello specchio delle generazioni”. Mentre Nachman Bialik aveva rivalutato l’aggadà in chiave di creatività letteraria, Heschel lo fece in chiave religiosa; e ne scrisse non in opposizione ma ad integrazione della dimensione halakhica, come via privilegiata del cuore che comprende meglio e più a fondo per mezzo del linguaggio simbolico, ricco di metafore e poesia, piuttosto che in un linguaggio giuridico, sì preciso ma lontano dalla vita quotidiana.

Quella di Abraham Joshua Heschel fu dunque una scelta mediana: volle mediare i grandi modelli ebraici della tradizione chassidica ma anche i valori della scholarship e della prassi halakhica in un linguaggio che colpisse l’immaginazione e il cuore, che facesse ri-appassionare il mondo ebraico alle ‘verità’ del giudaismo. Come il Ba‘al Shem Tov e il Kotsker Rebbe, come Kierkegaard nella filosofia cristiana del XIX secolo, Heschel indicò un percorso di ‘passione per la verità’ (si veda il suo libro Passione di verità, apparso postumo nel ’73), perché le vie del vero non si esauriscono in ragionamenti ma si nutrono anche di esempi, non sono monopolio degli studi accademici ma da lì ripartono per il grande mondo. Forse per questo Heschel osò schierarsi a fianco delle battaglie dei neri d’America per più diritti civili, così come osò sfidare i timori e i dubbi dell’establishment ebraico americano verso il dialogo con la chiesa cattolica, volando a Roma per incontrare il cardinale Agostino Bea prima, e poi lo stesso papa Paolo VI. Curiosità finale, pochi mesi dopo la morte di Heschel, nel 1973, quel papa lo citò in pubblico riportando un suo pensiero religioso: era la prima volta che un pontefice citava un ebreo, un rabbino, in un discorso pubblico… (Pio IX chiamava gli ebrei ‘cani’!). Quant’acqua del Tevere sotto i ponti di Roma! Le opere di Heschel hanno certamente un respiro tanto profondo dal punto di vista ebraico quanto universale dal punto di vista umano; ecco perché sono capaci di illuminare e parlare ai pensanti di ogni fede religiosa e di ogni appartenenza culturale.

 

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


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