Il primo cohousing interreligioso sta per debuttare a Los Angeles: parliamo dell’iniziativa con il suo fondatore, Mohammed Al-Samawi
Un cohousing interreligioso: vivere insieme sotto lo stesso tetto, non per caso, ma per scelta. Non vivere nel senso di esistere uno accanto all’altro, ma fare insieme: condividere, imparare, celebrare. Coinquilini, ma anche partner con una visione comune: fare diventare l’altro un po’ meno altro. Per un periodo che va da uno a due anni, con il sostegno finanziario di una borsa di studio e con quello umano di esperti in attivismo comunitario e interreligioso. È l’idea che sta al centro di Abrahamic House, e che aprirà le porte per la prima volta a Los Angeles nel marzo 2020. Fino alla fine di questo mese, le candidature sono aperte. Verranno selezionati per abitare insieme quattro giovani tra i 21 e i 35 anni, appartenenti a quattro diverse fedi: ebraismo, cristianesimo, islam e baha’i.
La mente dietro l’iniziativa è Mohammed Al Samawi: yemenita, fuggito dalla guerra civile nel suo Paese e arrivato negli Stati Uniti come rifugiato quattro anni fa. Una vicenda che è già un libro (Caccia alla volpe, Harper Collins), che sta per diventare un film, prodotto da Marc Platt (La La Land) e scritto da Josh Singer (Spotlight), e che sembra l’incarnazione di una celebre battuta teatrale: “Ho sempre confidato nella bontà degli sconosciuti”.
Per la precisione, quattro sconosciuti. Che di lui sapevano poco o niente, ma che gli hanno salvato la vita. “In Yemen mi ero avvicinato al dialogo interreligioso grazie a Internet e ai social media”, racconta Mohammed. “Ero entrato a far parte del network di YaLa Young Leaders (organizzazione con sede in Israele e affiliata al Centro Peres per la Pace, che lavora per creare community online di dialogo tra i giovani della regione Mena) e volevo impegnarmi per creare ponti tra musulmani, ebrei e cristiani. Per questo ho ricevuto minacce di morte da parte di estremisti”.
Mohammed, di famiglia sciita, ma cresciuto in un Paese a maggioranza sunnita, inizia allora a cercare un posto più sicuro: lasciata la sua città, Sana’a, si trasferisce ad Aden, uno dei centri nevralgici della guerra civile iniziata proprio in quel periodo.
Mohammed si barrica in casa con tutto ciò che gli resta: poche provviste di cibo e una debole connessione Internet. Invia lo stesso messaggio a tutti i suoi contatti: “Conosci un posto sicuro per me?”. “Mi aspettavo di ricevere aiuto dai miei connazionali. Ma ognuno era occupato con i suoi guai e così ricevetti silenzio, oppure l’assicurazione che avrebbero pregato per me. Io apprezzo la preghiera, ma in quel momento mi serviva una via d’uscita. Ciò che non mi sarei mai aspettato è che il mio appello sarebbe stato accolto da quattro americani che non avevo mai visto di persona e che conoscevo solo attraverso la community di YaLa Young Leaders. Non sapevano niente dello Yemen né avevano alcuna esperienza in diplomazia o rifugiati di guerra. Ma hanno messo in moto una rete che nel giro di 13 giorni è riuscita a tirarmi fuori”.
Megan, Justin, Natasha e Daniel. Tra Tel Aviv, New York e San Francisco. Quattro come i bicchieri di vino e le domande del Seder di Pesach: coincidenza, Mohammed lascia lo Yemen proprio durante la festività. “Ha attraversato il Mar Rosso nella notte di Pesach”, commenta Daniel Pincus, uno dei quattro attivisti in un’intervista video. “Solo che invece di chiamarsi Mosé si chiama Mohammed. E ha viaggiato da est verso ovest invece che da ovest verso est”.
Dallo Yemen, Mohammed arriva a Gibuti. “Desideravo raggiungere gli Stati Uniti, ma per ottenere il visto d’ingresso e presentare domanda d’asilo serviva l’invito di un’organizzazione”. A sorpresa, l’invito arriva finalmente da Moishe House, l’organizzazione ebraica no-profit che lavora per la costruzione di comunità attraverso il co-housing. “Sono stato il primo Mohammed a essere invitato come speaker a un evento di Moishe House”, dice ridendo. “Mi sono innamorato del concetto di Moishe House e desiderando proseguire in qualche modo la mia attività di dialogo interreligioso mi sono detto: perché non creare qualcosa di simile, ma per persone di fedi diverse? Così è nata l’idea di Abrahamic House. Il fondatore di Moishe House, David Cygielman, ne è stato un grande sostenitore fin dall’inizio. Ora è membro del Direttivo”.
Da un punto di vista organizzativo, Abrahamic House si compone di un Consiglio Direttivo e di tre consulenti. I quattro giovani selezionati per la prima esperienza gestiranno liberamente i propri impegni universitari o professionali durante la settimana, ma dovranno utilizzare un certo numero di ore del weekend per svolgere attività in comune. “Le attività sono di quattro tipi”, precisa Mohammed. “Il primo tipo si chiama “Yalla” e si basa sul divertimento: giochi, lezioni di danza, di cucina…; il secondo tipo si chiama “S’daqah” (dalla radice che nell’ebraismo e nell’islam indica l’aiuto che si deve alla comunità) e richiede di fare volontariato laddove ci venga richiesto: che si tratti di aiutare una comunità ebraica a organizzare lo Shabbat, o una comunità islamica a organizzare una serata di Ramadan, o altro. Il terzo tipo riguarda il dialogo sui grandi temi del nostro tempo: l’antisemitismo, l’islamofobia, i diritti, la discriminazione, tutto ciò che dobbiamo conoscere meglio per imparare a proteggerci l’un l’altro; il quarto tipo riguarda la celebrazione condivisa delle feste unita all’apprendimento delle somiglianze che esistono tra di esse”.
Lo scopo finale di Abrahamic House? Mohammed lo spiega con un aneddoto personale: “Anni fa in Yemen conobbi un professore cristiano che mi regalò una Bibbia. Io di ebrei e di cristiani non sapevo nulla, ma non ero consapevole della mia ignoranza. Quel gesto ha cambiato la mia vita, perché mi ha indotto alla curiosità di imparare di più sull’altro. Vorrei che le persone di Abrahamic House fossero come quel professore, capaci di aprire una porta sul mondo dell’altro, per come realmente è”. L’obiettivo è crescere negli Stati Uniti, e successivamente esportare il modello Abrahamic House anche negli altri Paesi.
“Viviamo in un mondo che sempre più “alterizza” l’altro senza davvero conoscerlo. Amo gli Stati Uniti e la libertà di parola, la libertà di dire ciò che penso senza rischiare la morte. Ma anche qui le persone tendono a vivere in piccole cerchie e ad accusarsi l’un l’altra per ciò che non va nella società. Il mio Paese, lo Yemen, è l’esempio vivente delle conseguenze che questo può avere. C’è una storia della tradizione islamica che trovo molto rappresentativa. C’era un maestro che tutti i giorni si portava al lavoro il pranzo da casa. E ogni volta si lamentava che non era di suo gradimento. Un giorno, stanchi di sentire le sue continue lamentele, i colleghi gli chiesero: “Ma perché non chiedi a tua moglie di prepararti qualcosa di diverso”? Al che il maestro rispose: “Quale moglie? Chi vi ha detto che sono sposato?”. Sconcertati, i colleghi domandarono: “Ma allora chi ti prepara il pranzo?”. E il maestro: “Me lo preparo io”. Questa storia parla di noi stessi. Spesso sappiamo benissimo che potremmo rimboccarci le maniche e “prepararci un altro pranzo”, ma scegliamo di non fare niente e lamentarci”.
Gathering, not othering è il motto di Abrahamic House: “Se continuiamo ad “alterizzare” l’altro non troveremo nessuno ad aiutarci quando avremo bisogno. Penso alla donna musulmana che ha difeso un uomo ebreo e suo figlio da un attacco antisemita nella metropolitana di Londra, o al fatto che la comunità ebraica americana – poiché attraverso la memoria della Shoah sa cosa significhi non riuscire a fuggire da un luogo dove ti vogliono uccidere – sia stata la prima a opporsi al Muslim Ban di Trump. Abbiamo bisogno di più esempi così”. Il segreto, secondo Mohammed, è osare. Non lasciarsi condizionare dai pregiudizi e vedere coi propri occhi. Nel titolo del suo libro, Caccia alla volpe, c’è un velato riferimento a un racconto talmudico. Con un rovesciamento nel finale. Nel racconto originale ci sono dei pesci, continuamente minacciati dai pescatori, e c’è una volpe che dice: “Venite con me, so come mettervi al riparo”. Ma i pesci capiscono l’inganno e nuotano via. “Io invece”, dice Mohammed, “mi sono fidato delle volpi”.
Sul finire dell’intervista, gli chiedo di condividere una definizione di fede. “Un insieme di fiducia e voglia di conoscere e imparare. Fiducia che le cose accadono per una ragione. Uno dei motivi per cui sono diventato un’attivista per il dialogo è che soffro di una disabilità fisica. Da bambino avrei dato qualsiasi cosa per essere come gli altri, correre e giocare a calcio. L’esclusione dal gruppo mi rendeva arrabbiato e infelice. Finché mia madre mi disse un giorno di smetterla di lamentarmi e cominciare a lavorare su me stesso. Non potendo dedicarmi all’attività fisica, mi concentrai sullo studio. È così che imparai l’inglese e in seguito mi si aprì il mondo di Internet, di YaLa Young Leaders e tutto il resto. Anche la storia del mio salvataggio parla di fede. In quei fatidici tredici giorni, le persone che cercavano di aiutarmi a un certo punto mi hanno chiesto dove vivevo esattamente. Ho fornito il nome della strada e mi hanno risposto: “Ok, ma il numero civico?”. In Yemen non abbiamo numeri civici. Ci orientiamo in un modo tipo: “La seconda casa da destra dopo il supermercato”. E lì mi sono sentito vacillare: farò bene a riporre la mia fiducia in gente che non sa proprio nulla di nulla del mio Paese? Alla fine”, conclude, “mi sono fidato. E non avrei potuto fare scelta migliore”.