Cultura
Acher, l’Altro: storia del rabbino eretico del Talmud

Il mistero di Elisha ben Abuya sta nel soprannome con cui viene indicato nei testi, Acher cioè “l’altro”, “il diverso” quindi il dissenziente, l’eretico

Chi fosse davvero Elisha ben Abuya non lo sapremo probabilmente mai con certezza. Tra i rabbini citati più volte nel Talmud, ma anche nella Mishnà e nel midrash, viene inquadrato nel contesto di fine I-inizio II secolo, cioè nei decenni difficili e per lo più oscuri tra la distruzione del Tempio (70 e.v.) e la definitiva rovinosa disfatta di fronte alla potenza di Roma (135 e.v.). Il mistero di Elisha ben Abuya sta nel soprannome con cui viene indicato nei testi, Acher cioè “l’altro”, “il diverso” quindi il dissenziente, l’eretico. I tentativi da parte degli studiosi di definirne l’eresia (parola che deriva dal greco airesis, “scelta”, e indica dunque alla lettera la diversità di opinioni e comportamento rispetto alla maggioranza dei contemporanei) sono stati numerosi. Per Grätz Elisha è uno gnostico, per Siegfried un continuatore di Filone di Alessandria, Dubsch lo ritiene un giudeocristiano, Smolenskin e Weiss una vittima dell’autoritarismo del contemporaneo rabbi Aqiva. Poiché però le uniche fonti in cui di Elisha si parla sono quelle della tradizione rabbinica in cui è demonizzato e condannato (ma non censurato, al punto da prestarsi perfettamente come esempio della straordinaria pluralità presente in quei testi), ogni tentativo di definirne personalità e dottrina non può che essere nel migliore dei casi un’ipotesi di lavoro, nel peggiore puramente arbitrario. La critica più recente, invece di tentare l’impossibile ritratto di un Elisha storico, si concentra su come questo personaggio a prima vista assai singolare viene presentato nei testi che sono stati tramandati.

I Pirkè Avot, certamente il più conosciuto dei trattati della Mishnà anche grazie alla tradizionale lettura che se ne fa presso molte comunità ebraiche nel periodo dell’Omer tra Pesach e Shavuot, riportano una opinione di Elisha ben Abuya a proposito di insegnamento ed educazione. Chi apprende da bambino, secondo Elisha, è come inchiostro vergato su un foglio nuovo, chi invece apprende da anziano come inchiostro scritto su un foglio vecchio e usurato. Il detto attribuito a Elisha viene presentato semplicemente così, senza l’aggiunta di giudizi di valore o dell’intervento dei chachamim (“i maestri”), quasi sempre nome in codice per indicare la maggioranza e nella maggior parte dei casi – ma non in tutti – anche la linea accettata come riferimento per la halachà, cioè la normativa a cui attenersi. Alle parole di Elisha seguono quelle di altri due rabbini, Yosef ben Yudà e Rabbi. Nessun cenno viene fatto qui al nomignolo Acher.

Le cose stanno diversamente nel Talmud, redatto in seguito alla Mishnà sotto la forma di ampio commento ad essa. Sia nella versione palestinese sia in quella babilonese del Talmud Elisha viene più volte menzionato, in modo particolare nelle sezioni narrative – definite dalla tradizione haggadà per distinguerle dalle sezioni normative, la halakhà. Una delle storie presenti in entrambe le redazioni del Talmud riguarda quattro rabbini che entrano nel pardes, in ebraico “frutteto”, “giardino”. È un racconto che è stato tipicamente letto come messa in guardia contro i pericoli e non solo le opportunità della conoscenza. Il termine pardes, che deriva dalla stessa radice persiana e poi greca di “paradiso”, avrà vasta fortuna nella mistica medievale e più in generale sarà assunto come metafora per indicare la conoscenza poiché le sue quattro lettere p-r-d-s sono anche le iniziali dei quattro sensi delle scritture (letterale, allegorico, omiletico-morale, mistico-misterico). Ma torniamo ai quattro nel frutteto, e cioè Ben Azzai, Ben Zomà, “l’altro” (Acher) e rabbi Aqiva. Ben Azzai “vide e morì”; Ben Zomà “vide e fu ferito”, cioè perse la ragione; Acher “si mise a recidere i germogli delle piante”, un modo per indicare che perse la fede e diventò eretico. Soltanto rabbi Aqiva, il più anziano dei quattro, uscì indenne dal pardes. Il Talmud babilonese, in un passo probabilmente tardo e cioè di diversi secoli successivo alle guerre contro Roma, spiega il comportamento di Elisha con riferimento a concezioni dualistiche del divino. Il Talmud palestinese invece interpreta la storia dicendo che Elisha “uccise gli studenti della Torà”, considerati come i nuovi germogli recisi nel pardes. Da quanto segue non è chiaro se Acher uccida fisicamente gli studenti o li elimini in quanto studenti di Torà convincendoli a lasciare lo studio e fare altro. Tutto questo, sottolinea il testo, in un tempo di persecuzione contro coloro che cercano di trasmettere la tradizione. Da qui deriva la descrizione di Elisha come delatore passato ai romani durante la guerra contro l’impero – il riferimento inevitabile va all’ultima delle grandi rivolte, quella di Bar Kochbà e rabbi Aqiva. Si racconta che il perfido rinnegato, per esempio, si aggiri di Shabbat per denunciare quegli ebrei che si rifiutano di svolgere attività lavorative. Elisha ben Abuya è un traditore del suo stesso popolo.

La condanna con cui i compilatori del Talmud investono Acher non si ferma alla connivenza o peggio al collaborazionismo con gli occupanti, ma si allarga a coprire la cultura, l’insegnamento e le idee del personaggio. Di ottima famiglia, studia e parla in lingua greca, al punto che “non si stancava mai di cantare canzoni greche”. Possiede inoltre libri eretici, nuova allusione ai pericoli ai quali può condurre la conoscenza. Allo stesso tempo, però, Elisha viene descritto come un dotto che agisce, insegna e dialoga con i suoi pari. La sua figura, evidentemente non storicamente attendibile poiché riassume in sé ogni negatività o quasi, è quella di un rabbino che si comporta in modo opposto agli altri rabbini. Acher viola lo Shabbat e le mitzvot, dubita dell’immortalità dell’anima, è associato ai maiali e alla prostituzione. Se rovesciamo le azioni di Elisha ricaviamo il modello del saggio del Talmud, di cui massimo esempio è quel rabbi Aqiva schierato con la fazione anti-romana fino a riconoscere come messia il suo condottiero Bar Kokhbà e finire ucciso da testimone della fede dopo atroci sevizie. Il Talmud riporta anche alcune storie per spiegare l’origine dell’eresia e del vero e proprio odio nei confronti dell’ebraismo (rabbinico) da parte di Elisha. Secondo una di queste Elisha assiste alla morte di un giovane caduto dal tetto (o in altra versione da un albero) mentre sta compiendo una buona azione che ha il precipuo scopo di adempiere una legge fondamentale come quella – compresa nel decalogo – di onorare i genitori. Il giusto non solo non viene ricompensato, ma anzi nell’atto stesso di compiere un’opera buona perde la vita! Elisha vede perde la fede. Si chiede perché Dio non impedisce l’ingiustizia, perché tace. Ma se esiste l’ingiustizia, possiamo tradurre in termini moderni, allora o Dio non è giusto, o è indifferente alle sue creature, o è impotente o semplicemente non è. Nel volume Celebrazione talmudica (Lulav) Elie Wiesel riflette su questo racconto alla luce di un tema su cui è tornato molte volte a interrogarsi, quello del silenzio di Dio durante la Shoah. Per Wiesel la protesta di Elisha contro un Dio che tace è discutibile ma legittima, non lo è invece il tentativo di rivalersi su chi non smette di onorare questo stesso Dio. Poiché Elisha non può evidentemente colpire Dio, colpisce senza alcuna pietà o solidarietà il popolo che a questo Dio rimane fedele, cioè il popolo di Israele. Per questo diventa l’Altro. Acher è colui che, a differenza di Giobbe, per protesta contro Dio colpisce gli uomini. Meno convincente è chi nella modernità ha visto in Acher un prototipo di Spinoza, il filosofo cacciato dalla comunità portoghese di Amsterdam a metà Seicento con un editto di espulsione (cherem) di inusitata violenza verbale. Non esiste infatti neanche un documento che faccia pensare a uno Spinoza che cerca di rivalersi sulla sua ex comunità. E non solo: pur avendo la possibilità di convertirsi agevolmente, Spinoza sceglie di rimanere ebreo.

Secondo Louis Ginzberg, Elisha è un sadduceo. Nel suo personaggio si esprimerebbe così il conflitto tra due delle numerose correnti presenti all’interno della civiltà ebraica in età ellenistica e romana. Elisha, come abbiamo visto, è un dotto di buona famiglia, non un outsider. Inoltre alcune delle storie su di lui sembrano attribuirgli la negazione dell’immortalità dell’anima, una delle differenze principali attraverso cui sadducei e farisei di distinguono e su cui verosimilmente si scontrano. I sadducei, che fino al 70 comprendono in primo luogo i sacerdoti di Gerusalemme, insistono sulla centralità del Tempio e dei sacrifici; i farisei sul decentramento del culto nelle sinagoghe (edificabili ovunque) e attraverso la preghiera individuale. Dopo la fine del Tempio di Gerusalemme i rabbini diretti eredi dei farisei progressivamente guadagnano centralità nell’orizzonte ebraico. In capo ad alcuni secoli finiranno per imporsi quasi ovunque. L’ampia riforma condotta dai rabbini produce nel corso di circa mezzo millennio la Mishnà (la cosiddetta legge orale), il Talmud e le raccolte classiche di midrashim. Produce soprattutto, per tramite di questi testi, ciò che oggi chiamiamo ebraismo ma che è frutto di lunga e certamente conflittuale elaborazione, peraltro molto libera rispetto ai testi della Torà. Se accettiamo questa lettura, il ritratto a tinte fosche di Elisha sarebbe una testimonianza di questi conflitti.

Forse le pagine più struggenti del Talmud in cui compare Elisha sono quelle in cui viene messo a tema il rapporto con rabbi Meir, il suo più importante discepolo. Meir anche di fronte alle infrazioni più esplicite di Acher non rinnega il rapporto che lo lega al maestro, come quando questi irrompe a cavallo di sabato mentre Meir è impegnato nella preghiera. Nonostante questa e altre umiliazioni provocate da Elisha, Meir continua a discutere con lui cercando di ricondurlo sulla strada della giustizia. Allorché Elisha si ammala Meir corre da lui, cerca di convincerlo a pentirsi senza successo e quando gli chiedono chi vorrebbe incontrare per primo quando sarà anch’egli nel mondo futuro, il padre oppure il maestro, indica questo secondo senza esitare. Alla morte di Acher l’eretico la Corte celeste “dichiarò che non sarebbe stato né sottoposto a giudizio né sarebbe entrato nel mondo a venire”. Non sarebbe stato sottoposto a giudizio grazie ai meriti acquisiti con lo studio della Torà. Ma non sarebbe entrato nel mondo a venire per le sue malefatte. Meir allora si rivolge al cielo, chiedendo per il maestro il giudizio e il conseguente ingresso nel mondo futuro. Quando anni più tardi lo stesso Meir muore, spiega il Talmud, il suo desiderio viene accolto. La fedeltà costi quel che costi del discepolo al maestro, insieme ai meriti di rabbi Meir, ha il potere di salvare l’eretico e il traditore.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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