Cosa significa pubblicare libri? E sceglierli, tradurli, proporli al pubblico? Il mondo editoriale di una realtà decisamente particolare indagato da Anna Ferrando in un volume edito da Carrocci
Un anno fa moriva Roberto Calasso. Scrittore, saggista dalla penna veloce e di straordinaria cultura, ma soprattutto editore di Adelphi. Per cinquanta anni faro della casa editrice, per trenta suo unico e incontrastato vertice. Anche dopo la scomparsa la linea che ha dettato rimane, almeno per ora, quella dell’editore milanese. Perché è un fatto che, anno dopo anno, Adelphi è diventata sempre più simile a Calasso e Calasso, forse, ad Adelphi. Le caratteristiche fondamentali della casa editrice si possono sintetizzare parlando di cultura alta ma non accademica; una veste grafica e una cura tanto riconoscibile quanto impeccabile; un rapporto particolare e a suo modo circolare tra editore, lettore, autore e testo, a formare quasi uno spirito di club; il rifiuto di rincorrere l’attualità politica e del costume, unito però alla capacità di promuovere anche autori e libri di successo nei momenti giusti, da Siddharta a Simenon, da Kundera alla Versione di Barney; una pronunciata inclinazione per l’irrazionale, il misticismo, le tradizioni dell’Oriente, l’anticomunismo e la cultura “altra” del Novecento, quella maledetta dalla storia dei Céline e Schmitt e Heidegger e Bloy e Guénon e Dumézil e Cioran e Eliade.
Questa è Adelphi, una casa editrice unica a livello europeo. Ma Adelphi è Calasso? La tentazione di rispondere di sì è forte perché dal 1993 fino alla morte nel 2022 la casa editrice ha avuto una struttura fortemente verticale, attingendo linfa sempre nuova dalle indubbie capacità, il carisma e le oceaniche conoscenze di Calasso, che ha a lungo congiunto le funzioni di direttore editoriale e amministratore delegato. C’è chi, scherzando ma non troppo, si riferiva a libri e collane Adelphi come all’estensione visibile della mente del suo capo. Che d’altra parte non ha mai fatto nulla per evitare di essere additato come guru o vate, contribuendo anzi alla costruzione del mito di sé e dell’impresa editoriale che con il sé ha voluto fare coincidere.
Ebbene, non è sempre stato così. Le origini della casa editrice all’inizio degli anni sessanta, infatti, parlano di una pluralità di voci, alla quale presto si unisce come una delle più rilevanti ma non l’unica e certamente non la prima quella del giovane Calasso. La stessa scelta del nome, Adelphi, richiama il greco adelphoi, fratelli, dunque una comunione d’intenti, il progetto coraggioso di un gruppo di amici decisi a pubblicare quei libri “che più ci piacciono”, come dice Luciano Foà, e che all’epoca trovano difficilmente spazio nell’editoria di cultura. Un progetto orizzontale dunque, o meglio circolare, ben diverso dal modello verticale affermatosi in seguito con l’assunzione dei pieni poteri da parte di Calasso. Di preistoria e storia dei primi decenni di Adelphi tratta il libro di Anna Ferrando Adelphi. Le origini di una casa editrice (1938-1994), pubblicato pochi mesi fa da Carocci. Quello di Ferrando è un testo indispensabile per chiunque si interessi di editoria e più in generale di cultura nel nostro paese, costruito interamente su una messe di documenti scritti e di testimonianze orali di cui il ricco apparato di note rende conto. Tanti dunque i punti di vista che emergono nel testo, uno però manca anche se non per scelta della bravissima ricercatrice. Il convitato di pietra è proprio lui, Calasso: la sua voce emerge ugualmente ma solo in obliquo, per vie traverse, a causa della non disponibilità di accesso ai documenti della casa editrice dopo il 1993 e della sua personale a farsi intervistare – complice anche la malattia degli ultimi mesi.
Per comprendere le origini di Adelphi bisogna volgere lo sguardo oltre venti anni e una guerra mondiale prima della vera e propria fondazione e guardare a un’amicizia, quella tra Roberto Bazlen e Luciano Foà. Bazlen, triestino immerso nella tradizione mitteleuropea, è personalità quasi mitica nel piccolo mondo dell’editoria. Di vasta cultura, restio a impugnare la penna e celebre “lettore”, cioè suggeritore di libri per le case editrici, allergico sia alla cultura di massa sia a quella orientata dall’ideologia comunista o comunque di impegno e formazione del lettore come quella einaudiana negli anni cinquanta, Bazlen ha un ruolo decisivo nella configurazione dell’idea che soggiace ad Adelphi. Adelphi, dirà, non vuole essere una società per la lotta all’analfabetismo. Foà, che di Adelphi sarà nei primi anni il principale artefice, coniuga passione per il libro, curiosità, ascolto e modestia all’organizzazione e gestione di quella che è pur sempre un’azienda con un bilancio e, si spera, degli utili. Entrambi ebrei segnati dalla stagione del nascondimento e della fuga negli anni della Shoah. Non gli unici, però, tra i primi adelphoi. C’è infatti l’intellettuale e imprenditore Alberto Zevi, sostegno indispensabile sul piano editoriale e soprattutto finanziario nei primi difficili anni della casa editrice. E c’è almeno nella primissima fase Roberto Olivetti, il figlio di Adriano e Paola Levi, con la sua partecipazione economica e la passione per la psicoanalisi, peraltro condivisa da Bazlen e dagli altri. Fin dai primi anni verranno inclusi giovani promettenti, tra i quali Claudio Rugafiori e il futuro direttore editoriale Calasso (anch’egli di origine ebraica per parte della nonna materna Anna Maria Melli, ferrarese e sorella del pittore Roberto), e coinvolte personalità come Giorgio Colli, curatore delle opere complete di Nietzsche.
L’idea di Bazlen è di pubblicare libri unici all’insegna della curiosità intellettuale e della raffinatezza editoriale. Libri, in altre parole, in grado di dire qualcosa, di non lasciare indifferente il lettore ma cambiarlo. Se si sfoglia il catalogo Adelphi, specie quello dei primi anni, si trova conferma di una via che porta a pubblicare uno dopo l’altro testi apparentemente – e non solo apparentemente – quanto mai lontani. Per esempio nella collana ammiraglia, la “Biblioteca Adelphi”, nel 1966 vediamo un libro dell’eccentrico drammaturgo e saggista francese Antonin Artaud, un volume sul teatro Nō giapponese, i ricordi famigliari della figlia di Benedetto Croce Elena, il particolarissimo romanzo geometrico-fantastico Flatlandia, Il libro dell’Es dello psicanalista e fondatore della medicina psicosomatica Groddeck, un romanzo argentino, Il racconto del Pellegrino del fondatore della Compagnia di Gesù Ignazio di Loyola, l’antica biografia di uno yogi. L’anno successivo un libro di mistica chassidica è seguito da un romanzo di fantascienza apocalittica, dalle lezioni del filosofo Wittgenstein e dall’Anello di Re Salomone dell’etologo Konrad Lorenz.
I primi anni di esistenza di Adelphi sono difficili. “Libri simili, oggi, equivalgono ad una eresia, e, nella fattispecie, a un atto sovversivo nei confronti della società moderna”, scrive nel 1964 Goffredo Parise a Luciano Foà. “E come eresie”, continua Parise, “verranno punite. Con quale punizione? Con un difficilissimo smercio, con una vendita limitatissima, con una accoglienza diffidente, sospettosa, infine ostile. Per dirla in due parole: sono libri ‘ebrei’”.
Solo con lentezza il mercato si apre a una proposta editoriale che esce dagli schemi dell’epoca che legano l’editoria di cultura – Einaudi ne è a lungo il più importante rappresentante – all’impegno sotto gli auspici di storicismo e socialismo. Gli adelphi propongono pezzi unici all’interno di collane ben riconoscibili attingendo nei primi anni perlopiù a testi inattuali sconosciuti in Italia. Tra i molti meriti che vanno riconosciuti a Calasso c’è anche l’idea, diventata oggi la regola nella pianificazione editoriale dell’azienda, di sfruttare fino in fondo un autore scelto, pubblicando tutte le sue opere. Non più “libri unici” come qualcosa di isolato in grado di illuminare di propria esclusiva luce, dunque, ma come anelli di una sola catena in quanto l’autore è scelto da un marchio prestigioso che lo proietta nello spazio dell’alta cultura. Questo cambiamento rispetto all’idea prima di Bazlen è tra le ricette che hanno portato Adelphi al consolidamento prima e al successo economico poi. Così non solo Roth e Canetti, ma anche autori non originariamente adelphiani come Borges o Sciascia e perfino narratori decisamente popolari come Simenon o Fleming i cui romanzi però, una volta ripubblicati in veste Adelphi, cambiano al rialzo la percezione complessiva dei loro autori in Italia. I primi sintomi della trasformazione si attestano alla metà degli anni settanta. L’egemonia culturale einaudiana scricchiola con l’onda inesorabile del riflusso dalla stagione dell’impegno cominciata nell’ultimo scorcio del decennio precedente. La letteratura non impegnata interessa adesso di più, a cominciare da quella asburgica, largamente di matrice ebraica, che Adelphi ospita massicciamente; cresce l’interesse per un altro filone battuto fin dall’origine, quello del pensiero orientale. Il répéchage del romanzo di Hesse Siddharta, già uscito trent’anni prima in italiano presso altro editore, costituirà per Adelphi il più grande best e longseller con oltre 2 milioni e 700mila copie vendute.
Nel 1993, subito dopo la morte di Alberto Zevi, vengono al pettine alcuni nodi della più volte ribadita apoliticità della casa editrice. Adelphi ha infatti negli anni pubblicato numerosi testi di pensatori reazionari sulla base di considerazioni puramente estetiche. Mentre però nei primi anni esoterismo, irrazionalismo e cultura di destra rappresentavano filoni significativi tra gli altri, con la progressiva ascesa di Calasso diventano filoni da cavalcare, tanto più negli anni del crollo dell’impero sovietico, dei partiti tradizionali e della prima repubblica. Già alla metà degli anni ottanta una forbita polemica tra Cesare Cases e Calasso palesa pregi e limiti del modello impersonato dall’editore milanese. Con stilettate raffinate Cases mette alla berlina chi, come Calasso-Adelphi, rappresenta sé stesso come fonte di eterne verità fuori dal tempo, dalla società e dai suoi problemi al pari di un saggio orientale o un carismatico veggente dispensatore di parole alate. L’apoliticità di Adelphi, secondo il critico piemontese, illuminista ed ebreo, implicava uno scivolamento silenzioso verso destra perché in fondo “la neutralità buddhista è pratica impossibile per chi di professione non medita, ma pubblica libri”. Occultismo, snobismo, elitarismo, deresponsabilizzazione, apocalittismo, preferenza per l’aforisma e per lo scrivere oscuro (su cui negli stessi anni un altro esponente della scuola illuministico-positivistica piemontese, Primo Levi, si impegna con un autore Adelphi che più oscuro non si può come Giorgio Manganelli): tutti questi diventano termini con cui chi condivide le critiche di Cases definisce sempre più spesso l’impresa editoriale fondata da Foà, anche senza smettere di ammirarne i risultati.
Nel 1993, si diceva, la vera e propria svolta, dovuta non solo a critiche dall’esterno ma anche e soprattutto a dissidi interni. Calasso decide di pubblicare un libello antisemita ottocentesco del cattolico francese Léon Bloy senza note e con la sola postfazione colta ma criptica – nel consueto stile adelphiano – di Guido Ceronetti. Nel giustificare la scelta, Calasso non nega l’antisemitismo ma invita a considerarlo un contorno rispetto a quelle che considera le vertiginose vette dell’opera. Foà, come le figlie di Alberto Zevi Susanna e Elisabetta, sono contrarie alla pubblicazione senza apparati critici, e con loro la nota traduttrice e mediatrice culturale Renata Colorni, che infatti a breve lascerà la casa editrice. Il critico Cesare Segre, in una lettera all’ottantenne Foà, parla di un “libro immondo” che “siete andati a pescare nelle fogne”, un libro che è “una vergogna per chi lo stampa e per chi ha piacere di leggerlo” in quanto contribuisce a rilanciare il già risorgente antisemitismo. “L’ombra di Hitler, dall’inferno, vi sarà grata”, concludeva Segre prima di annunciare il proprio boicottaggio personale dei libri dell’editore.
Pareri come quello di Segre non sono isolati; d’altra parte già prima dell’esplosione dello scandalo Foà aveva tentato in tutti i modi di convincere Calasso ad arretrare, ma invano. Anche le qualità estetiche del libello decantate da Calasso sono come minimo da dimostrare: come scriveva Giovanni Raboni, il libro è “bruttissimo” – un parere a cui chi scrive, da umile lettore, si associa. Oltre a Dagli ebrei la salvezza di Bloy, Calasso mette inoltre in programma un testo del giurista nazista mai pentito Carl Schmitt, di cui poi in anni successivi Adelphi pubblicherà numerose altre opere. Calasso, da parte sua, invocava la libertà dell’editore, la vocazione di Adelphi a librarsi un metro sopra la grande confusione che si accalca sotto il cielo e la convinzione che il vero sapere sia essenzialmente non politico, sottoponendo Foà e gli altri adelphi a un vero e proprio aut aut. Un atto di forza, insomma. Anche se nessuno dei protagonisti lo afferma a chiare lettere, la sensazione è che quella di Calasso sia sì una questione di principio, ma anche e soprattutto un modo per forzare la mano imponendosi definitivamente come il capo di Adelphi e non più un primus inter pares. In ogni caso con l’affaire Léon Bloy Adelphi perde la caratteristica della decisione concertata a vantaggio dell’accentramento direttivo. Foà, ormai ottantenne, potrebbe mettere in minoranza Calasso ma non lo fa e poco dopo si dimette. Cominciava il regno dell’ex enfant prodige divenuto sovrano incontrastato. Non vanno dimenticati i molti tratti di continuità, a partire dalla raffinatezza grafica e dalla cura editoriale, che legano la vecchia e la nuova casa editrice. Una pagina in ogni caso si chiudeva, un’altra non meno entusiasmante ma diversa si apriva. E questa rimane ancora tutta da raccontare.