Entrambi i popoli condividono un approccio militante ai propri problemi, facendo leva su se stessi e non attendendo che siano gli altri a compiere la prima mossa
“Per quanto riguarda Israele questa storia ha una lezione immediata e una conclusione a lungo termine. La conclusione immediata è che il desiderio di distanziare le forze iraniane e le milizie sciite dalla Siria non è affatto vicino alla sua realizzazione. La Russia ha venduto le sterili promesse di Israele, che si sono sgretolate dopo circa sei mesi – e gli Stati Uniti non sono entusiasti di dare una mano. E anche se le Forze di difesa israeliane hanno conquistato uno straordinario risultato nella serie di scontri con le Guardie rivoluzionarie iraniane in Siria la scorsa primavera, ciò non significa che Teheran abbia rinunciato ai suoi piani. La lezione a lungo termine è che Trump, nella sua situazione, è diventato qualcuno a cui non si può fare affidamento. Anche se è fondamentalmente solidale con Israele, e anche se è circondato da familiari, consiglieri e persone che sono ebrei, Trump è in guai così grossi e agisce in modo così irregolare che il governo israeliano non può essere certo del suo sostegno a lungo termine”.
Così Amos Harel, analista di punta di Haaretz. Per rincarare la dose, arriva poi Herb Keimon che scrive, in questi giorni, sul Jerusalem Post le non meno inquietanti notazioni per cui: “la presenza delle truppe statunitensi nelle aree controllate dai curdi nella Siria orientale ha finora impedito a Teheran di completare quell’arco sciita che porterebbe l’influenza dell’Iran fino al Mediterraneo, passando senza soluzione di continuità attraverso l’Iraq, la Siria e il Libano. La presenza degli Stati Uniti nella Siria orientale era ciò che impediva a Teheran di trasportare armi moderne e potenti via terra, lungo quell’arco, fin nelle smaniose mani di Hezbollah in Libano. Era dunque una zona cuscinetto di importanza cruciale. […] Con la presenza americana e il sostegno americano ai curdi, possiamo in qualche modo contenere il peso dell’Iran nella regione, cosa che è estremamente importante. […] La presenza americana era anche una carta che poteva essere giocata con i russi per convincerli a sospingere gli iraniani fuori dalla Siria. I russi non gradiscono la presenza americana nell’area e, di conseguenza, gli Stati Uniti potevano dire: ‘usate la vostra influenza per far uscire l’Iran, e noi ce ne andremo’. Ma ora gli Stati Uniti se ne stanno andando senza che i russi – perlomeno a quanto è dato sapere – stiano facendo nulla per far uscire gli iraniani”.
Che la Turchia del sultano Erdogan si preparasse da tempo ad un regolamento di conti con i curdi della Siria settentrionale, ritenuti alla stregua di «terroristi» da estirpare come la gramigna, era abbondantemente risaputo. Un segreto di Pulcinella. La controversa scelta del presidente Donald Trump di ritirare il piccolo contingente americano stazionante in quell’area, tra Tal Abyad e Ras al Ain, è risultato essere quindi il semaforo verde all’azione di cui si aveva sentore da tempo. In tutta probabilità quest’ultima si fermerà solo quando Ankara avrà creato un’area cuscinetto tra i quindici e i trenta chilometri, tra sé e il resto della Siria. Peraltro, nel suo intervento all’Assemblea generale della Nazioni Unite del 24 settembre scorso, il presidente turco aveva fatto un’indiretta allusione al possibile allargamento della medesima zona fino a Raqqa e a Deir Ezzor, duecento chilometri all’interno del territorio siriano. Nel qual caso, non solo i curdi ma l’intera Siria settentrionale rischierebbe di tracollare di nuovo in una spossante guerra civile, solo da poco attenuatasi.
Non di meno, un altro suo obiettivo è quello di neutralizzare, o comunque ridimensionare, il potenziale difensivo ed offensivo delle Forze democratiche siriane (una coalizione di milizie composta non solo da curdi ma da questi guidata, fino alla settimana scorsa con l’appoggio americano), ritenute un braccio armato del Partito dei lavoratori del Kurdistan, il Pkk, che in Turchia oltre ad essere illegale è considerato alla stregua di una pericolosissima minaccia per la sicurezza nazionale. Alcune considerazioni a latere: Ankara si aspetta che i curdi abbandonino “volontariamente” l’area di suo interesse, per effettuare una sorta di scambio etnico: fuori gli scomodi vicini, frantumazione delle residue possibilità di una via all’indipendenza per un futuro Stato curdo e immissione in quei territori di circa tre milioni di profughi siriani, a fare per l’appunto da cuscinetto sotto l’affettuoso e premuroso patrocinio delle forze armate fedeli al Sultano.
Dietro l’operazione militare c’è anche il calcolo demografico: ridurre presenza (e impatto politico) degli indipendentisti in una terra tradizionalmente abitata da molti curdi, rafforzare la repressione sui dissidenti turchi, allentare l’impatto dei rifugiati siriani sull’oriente turco scaricandoli in una zona di proprio presidio e rilanciare, sia pure in sedicesimo, le ambizioni di taglio neo-ottomanico e panturanico. Da questo punto di vista, l’offensiva militare in corso ha l’ulteriore l’obiettivo di ridimensionare la presenza curda non solo in Siria ma anche nell’Anatolia. Oltre alla presenza, oramai in via di progressiva disarticolazione, delle Forze democratiche siriane, c’è l’inquietante fantasma delle migliaia di ex combattenti dello Stato islamico, sconfitti sul campo proprio dalle prime. Non sono solo i miliziani in detenzione ma le loro famiglie, a partire da quanti vivono nel campo profughi di Al Hol.
Le peraltro tenui rassicurazioni di un Trump tremebondo, che ha dichiarato che il controllo di questi ultimi sarebbe transitato nelle mani dei turchi, non hanno convinto nessuno. In tutta probabilità, dal caos che si sta ingenerando in questi giorni, i tagliagole del Daesh ne trarranno un vantaggio, tornando in libertà. Impossibile per le forze curde continuare a controllarli, nel mentre debbono reagire agli attacchi turchi e, nel limite del possibile, garantire l’esodo della popolazione. Israele, in questo scenario cupo, ha una posizione precisa. Con una storia alle spalle. Nei giorni scorsi, il premier Benjamin Netanyahu ha «fermamente condannato» l’azione turca, offrendo nel mentre assistenza umanitaria alle sue vittime. Testualmente: «Israele condanna fermamente l’invasione turca delle aree curde in Siria e mette in guardia contro la pulizia etnica dei curdi da parte della Turchia». Inoltre: “Israele è pronto ad estendere l’assistenza umanitaria al coraggioso popolo curdo”. Quella militare prosegue di certo, ma sottotraccia. Il primo ministro uscente non ha menzionato direttamente la decisione di Trump che ha scatenato l’offensiva di Ankara ma l’ha implicitamente evocata dal momento che, in occasione dello Yom Kippur, ha ribadito che in caso di bisogno Israele deve fare affidamento solo di di sé, al netto delle alleanze: “ricordiamo e applichiamo sempre il principio base che ci guida: Israele si difenderà da solo contro ogni minaccia”.
Ed ancora: “non aspiriamo ad essere una nazione che abita solo con se stessa, ma è così che siamo stati costretti a fare all’inizio della guerra dello Yom Kippur“. Uno specifico riferimento al fatto che gli aiuti americani arrivarono solo quando Washington aveva machiavellicamente calcolato che il potenziale difensivo di Gerusalemme si stesse riducendo drammaticamente. La risposta turca non si è fatta attendere. Fahrettin Altun, responsabile della comunicazione per Tayyip Erdogan, ha definito le affermazioni del capo del governo israeliano come: «parole vuote di un politico caduto in disgrazia che ha come prospettiva molti anni in prigione per corruzione, frode e violazione delle accuse di fiducia», garantendo inoltre che «i curdi siriani, compresi i 300.000 esiliati in Turchia, sono protetti dalla Turchia. Elimineremo tutti i terroristi nell’area e aiuteremo i siriani a tornare a casa”.
La figlia di Netanyahu, Yair, ha lanciato su Twitter un hashtag intitolato Free Kurdistan. Peraltro, già nel 2014 il padre si era pronunciato a favore di uno Stato curdo indipendente, elogiando «l’impegno e la moderazione politica» dei leader di un popolo che «è degno della sua indipendenza politica». A fronte di un comune assenso, tra le diverse forze politiche israeliane e nella stessa popolazione, verso la condivisione di sforzi attivi per aiutare i curdi, la presidente del partito di destra HaYamin HeHadash, Ayeler Shaked, già ministro della giustizia, ha rilanciato l’appello a favore della creazione di uno Stato curdo. «La nostra memoria nazionale esige che ci rifiutiamo di accettare la violenza indirizzata contro un’altra nazione. Poiché questo è il segno della forza alla quali i turchi stanno facendo ricorso contro il popolo curdo del nord della Siria». L’interesse regionale d’Israele, ha aggiunto Shaked, coincide con la formazione di uno Stato curdo. Poiché: «i curdi sono la più grande nazione del mondo senza un loro territorio indipendente, con una popolazione di 35 milioni di individui. È un popolo antico che condivide un legame storico particolare con il popolo ebraico» E fa un qualche effetto sentire la maggiore esponente di un partito che si rifà ad una dottrina nazionalista e rigidamente conservatrice elogiare i curdi perché essi sono «i più progressisti e i più occidentali della regione» siro-iracheno-anatolica.
Il senso delle parole va sempre inteso contestualizzandolo ma già meglio si intende quando Shaked aggiunge che essi «sono la principale forza che ha combattuto l’Isis e ha subito migliaia di morti, sotto una direzione congiunta di uomini e donne. Il mondo occidentale li dovrebbe sostenere». La lunga storia dei rapporti preferenziali tra israeliani e curdi si alimenta di più elementi. C’è un aspetto geopolitico, quello per cui un Kurdistan indipendente costituirebbe un territorio nazionale di separazione tra l’Iran e la Turchia. Non di meno, per Gerusalemme, la possibilità di costruire una parternship strategica nel corso del tempo garantirebbe un passo in avanti di contro all’isolamento regionale che ha dovuto scontare dalla sua origine, attenuato solo dall’alleanza con gli Stati Uniti che, tuttavia, ad oggi pare attenuarsi. Washington è fisicamente lontana, prima ancora che politicamente. Mentre il Medio Oriente cambia.
Il rapporto preferenziale non è messo in discussione ma da sé non basta più, non almeno in prospettiva. Un altro dato che entra in considerazione è l’associazione, non importa quanto romantica e idealistica, tra il sionismo e l’indipendentismo curdo. Da Gerusalemme, l’idea del Risorgimento nazionale come fondamento della propria identità, rimane ancora un valore trasversale, al netto – poi – delle concrete declinazioni che ogni forza politica dà di esso. Sempre Ayeler Shaked: «i curdi sono un popolo antico, democratico e pacifico che non ha mai attaccato nessun paese». A farle da controcanto il deputato di Kahol Lavan Zvi Hauser per cui «Israele, in quanto Stato nazione di una minoranza etnica del Medio Oriente, non può chiudere gli occhi sulle sofferenze dei curdi della regione».
Anche perché «l’uccisione e l’espulsione dei curdi provocherà un’ondata di rifugiati, cambierà la realtà demografica e aumenterà l’instabilità, anche dal punto di vista di Israele. Che deve interiorizzare le nuove regole del gioco nella regione rispetto a tutte le sfide a venire». Entrambi i popoli, secondo Gerusalemme, condividono un approccio militante ai propri problemi, facendo leva su se stessi e non attendendo che siano gli altri a compiere la prima mossa. Il tema della laicità (assai dibattuto in queste ultime elezioni) è poi un ulteriore fattore di rafforzamento nella reciprocità identitaria. In questo caso è inteso soprattutto come rifiuto dell’ideologia politica che utilizza la religione come elemento di ordinamento della società.
Quindi, l’avversione esistenziale nei confronti dell’islamismo radicale, è forse l’asse più robusto, quanto meno da un punto di vista politico. Va in questo senso l’enfatizzazione dell’impegno armato delle donne, combattenti in prima linea contro gli islamisti, al pari della presenza femminile in tutte le istituzioni israeliane, a partire dallo stesso esercito. Un tasto da piagiare anche per ribadire la posizione dei partiti non religiosi di contro a quella ultraortodossa, che dà ben altri accenti alla funzione femminile, Il rapporto tra curdi e israeliani non è quindi occasionale né pare essere destinato ad esaurirsi. Per essere inteso, al netto di visioni complottistiche, semplicistiche o di comodo (il rimando all’«espansionismo sionista») va invece inteso dentro la consapevolezza di un mutamento strutturale degli assetti regionali di cui Gerusalemme sempre più spesso dovrà farsi carico. Cercando partner elettivi anche in loco.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.
Molto interessante.,puntuale,documentato…Conferma di un momento estremamente delicato.
Articolo veramente di qualità ed illuminante per chi , come me, aveva nozioni sommarie sulla popolazione curda. Interessante, completo e stimolante per approfondimenti successivi. Ottimo